domenica 30 giugno 2013

Bene, adesso basta (VI)


6. Amleto, Salomè e gli altri
V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Leopardi o Gozzano, fa lo stesso. L’opera di Bene, l’aedo di Ennio Flaiano (1910-1972), vive da secoli, per secoli, da per sempre. Tanti sono stati i personaggi delle sue opere ed ora cercheremo di tracciare un ritratto di alcuni di essi, cercando il minimo comun denominatore, se mai ce ne fosse uno. Innanzitutto Caligola, l’imperatore che massimamente rappresenta la solitudine del tiranno, perché artista di scarso gusto e, come tutti gli artisti tali, non si fa capace di veder disprezzata la propria arte, rifugiandosi infine nella frustrazione e nella vendetta inconscia. Potere e frustrazione rappresentano un mix micidiale per ogni buon regno: pensiamo a Hitler, anch’egli pittore di dubbio talento, o a Kim Jong-il, il caro defunto nordcoreano, che si dilettava con libercoli di tremenda fattura. Il "Caligola" di CB fu la prima e forse unica rappresentazione originale, totalmente patrocinata dall’autore stesso, Albert Camus (1913-1960), e per di più senza alcun pagamento di diritti d’autore. Pinocchio, figlio della provvidenza, ci appare invece in tutta la sua complessità, lontana dal chiacchiericcio collodiano delle scuole di Stato. Il burattino è la riscoperta del femminile, un infortunio, giacché dal rifiuto della crescita deriva una più alta maturazione della volontà di potenza. Come già detto in precedenza, CB riconosce alle età vergini una qualche forma di purezza, di divinità. Il testardo infantilismo di Pinocchio è proprio la negazione della coscienza della maturità, quella marcescenza che fissa nella mente degli uomini la possibilità di dire, fare e pensare, persino progettare. Balle. In Pinocchio l’insensata giovinezza è vissuta come caos, antitesi, parola slegata, follia e candore. Poi c’è il "Faust" di Goethe, il male incarnatosi, il dubbio scientifico che delega la sua alchimia al maligno. Già Arrigo Boito aveva rappresentato nel superlativo "Mefistofele" del 1868 la sciagurata scelta del dottor Faust ma ne aveva positivizzato il nichilismo. La differenza importante fra l’idea dello scapigliato Boito e quella dell’attore Bene, sta proprio nell’assenza di valori di quest’ultimo. Se Boito ricorreva al nichilismo di Nietzsche per farlo approdare ad un bene superiore, CB elimina qualsiasi riferimento alla dicotomia bene/male, anzi elimina direttamente l’intenzione di Goethe dalla questione, proponendo una parodia dell’assurdo, fumettistica, tanto che Mefistofele e Faust non sembrano nemmeno più paladini del male, bensì prodotti di scarto della teologia cristiana. Su Lorenzo de’ Medici, trasfigurato da CB in Lorenzaccio, vale ancora la critica che ne fece Maurizio Grande (1944-1996) ne "La grandiosità del vano" (1986): «Ciò che è vano può essere grandioso? Esiste una grandezza del non andare a segno, del fallire il bersaglio, del mancare il colpo? E ancora. Esiste una grandezza del gesto clamoroso di cui ci sfuggano le conseguenze? Esiste un’azione che non colga il suo scopo? Si può chiamare azione il gesto che afferma la propria vanità? Non soltanto la sua insufficienza, la sua crisi, la sua negazione, ma la sua vanità; vale a dire la sua gratuità, la rinuncia ad iscriversi in un progetto quale che sia e, soprattutto, a rendersi responsabile della modificazione della situazione, rivendicando per sé solo il momento dell’atto?». Ecco, "Lorenzaccio" fu proprio questa vanità, questo episodio privato (cioè mancato) della vita di Lorenzino. Mirabile poi la (ri)visitazione della figura di Salomè, nipote di Erode, che si innamora di Giovanni Battista, attratta dalle sue invettive contro la nobiltà locale. Arrestato san Giovanni, Salomè ne chiede l’uccisione dopo esser stata rifiutata ma, una volta effettuata la condanna a morte per decapitazione, fa scempio sessuale del cadavere del santo, fino a restar uccisa anch’ella per aver fatto inorridire il re galileo. Il tragico di questa vicenda è in CB travisato come impossibilità reale al martirio: là dove non c’è altra santità se non quella, pornografica, di pregare un dio, non v’è opportunità di morire per una fede. L’opera di Oscar Wilde (1854-1900) viene quindi trasposta in una dimensione surreale ed onirica, nella quale Gesù Cristo, che viene abbandonato in croce ben prima dell’uccisione del Battista, si fa mostro, vampiro, ormai non più barbaro in un mondo civilizzato. Alla fine di questa mia insana galleria di personaggi beniani (pro)pongo Amleto. Ma della figura shakespeariana non se ne può davvero parlare perché il percorso inventato da Bene nel suo film "Un Amleto di meno" (1973) è talmente pazzesco ed insensato che gettarsi in un qualsivoglia chiarimento sull’ambiguità della sua visione risulterebbe un’operazione perlomeno indisponente. Io c’ho provato ma non ci sono riuscito.

sabato 29 giugno 2013

Bene, adesso basta (V)


5. L’aldilà di Eros e l’avvento del porno
All’(est)etica di Carmelo Bene dobbiamo il titolo di questo blog. La svogliatezza che infatti abbiamo scelto come suprema caratteristica di quest’era è quel sentimento che CB identifica nell’aldilà di Eros. Alla morte del dio della grazia e del desiderio reciproco sorge l’oltre del desiderio stesso, ovvero il desiderio non più desiderato, la manchevolezza del bisogno e del piacere, ovvero il porno. Sul fatto che la nostra sia un’epoca fortemente pornografica c’è poco da discutere: ogni relazione umana è portata alla nefandezza estrema, voyeuristica, è trascinata nell’abbandono dell’interesse per impuro sadismo (e il marchese de Sade qui c’entra poco e niente), è scarnificata fino alla più completa svogliatezza. Se prendiamo in prestito da Freud il concetto di sesso come primario trauma inconscio, notiamo che anch’esso è diventato qualcosa di estremamente svogliato, scontato, deprezzato, quasi fosse diventato un obbligo da rispettare per carità di Stato. Il già citato Jacques Lacan sconfesserà il pensiero freudiano attraverso la linguistica di de Saussure, ma quello che ci interessa sottolineare in questa sede è il mancato, conseguenza perenne dell’era della svogliatezza. Franz Kafka (1883-1924), il più grande pornografo della storia, è stato un (in)consapevole estimatore del mancato (la sua pornografia è evidente ne "Il processo" del 1925). Perché in effetti siamo quel che (ci) manca: di tutte le possibilità, infinite, noi siamo la meno probabile, la meno interessante, la più insignificante. CB dedicò molta della sua opera al porno – ma sarebbe meglio dire all’osceno. Traviò molti dei suoi personaggi, molestò il pubblico che assisteva, violentò opere intoccabili della drammaturgia internazionale, stuprò teatri e regie. Eppure Bene era sempre e soltanto alla spasmodica ricerca del suo oltre, del suo essere fuori della scena, di essere egli stesso il teatro e non un commediante che interpretava qualcun d’altro. L’opera beniana non è pornografica ma vive nel porno. Non c’è altra soluzione al dilemma della morte di Eros se non cantare le gesta del suo opposto, lasciando intatta l’indecifrabilità dell’arte, lasciando ai posteri, tra secoli o millenni, l’ardua sentenza sulla morale di CB. È possibile comprendere la vita? No. E allora perché dovrebbe essere comprensibile l’arte?

venerdì 28 giugno 2013

Bene, adesso basta (IV)


4. L’incomunicabilità della parola
Uno dei più importanti problemi che Bene risolse, in ambito teatrale, fu quello riguardante la comunicazione dell’attore. Partendo dall’assunto che il discorso non fa parte dell’essere parlante, in quanto una volta fuori di esso non è più parte di esso, CB fu il primo a portare in scena il microfono, contravvenendo al tradizionale divieto di amplificare la voce. Grazie alla musicistica di Luciano Berio (1925-2003), che a lungo lavorò sul timbro vocale di Cathy Berberian (1925-1983), Carmelo riuscì a convincere il teatro che il microfono in realtà non amplificava un bel niente. Semmai è l’attore non amplificato che è costretto ad impostare e modulare la propria voce, falsificandola ed esponendola al pubblico ludibrio. Con la scelta oscena (proprio perché fuori della scena) di amplificare la voce CB ingannò il pubblico nell’ormai celeberrima "Lectura Dantis" a Bologna, una magnifica odissea dantesca ben lontana e aristocraticamente superiore alla grottesca caricatura perpetrata negli ultimi anni da Roberto Benigni (1952) sui testi del sommo. Il trauma del linguaggio, come analizzò approfonditamente lo psicologo Jacques Lacan (1901-1981), stava proprio nell’assenza del significante, quel piano del linguaggio che ne è la forma ma che riferisce già il contenuto, ovvero il significato. Quando CB affermava che «il significato è un sasso in bocca al significante», intendeva proprio l’inscindibilità dei due concetti, anzi evidenziava l’irrisolvibile questione dacché il primo ostacola sempre il secondo, fino a confondersi con esso, almeno alle spaurite orecchie del pubblico. La soluzione di Bene è ancora lungi dall’esser accettata, ma rimane a mo’ di profezia autoavverantesi. L’idea beniana dunque non si ferma al teatro, incomunicabile per definizione, ma si allarga a tutti gli ambiti della vita. La parola, quel mirabile ed oscuro oggetto che viene espulso dai nostri corpi, non è mai di nostra proprietà. E se la parola non è nostra e non ci rappresenta, allora anche il pensiero – che noi crediamo abbia partorito quella parola – non ci appartiene ed è fuori di noi, è altro da noi. Al posto nostro parlano milioni e miliardi di significanti, di cui è impossibile tracciarne i contorni proprio perché rappresentano la stratificazione operata dalla storia che è alle nostre spalle, sulle nostre spalle. Quando i futuristi, per primi, violentemente trascinarono nella prosa e nella poesia l’arte del paroliberismo (consigliamo di leggere il "Manifesto tecnico della letteratura futurista" pubblicato da Marinetti nel 1912), ci stavano semplicemente prendendo a schiaffi per farci aprire gli occhi su questo aspetto della comunicazione: che tutta la nostra vita è fatta di parole, dunque di stupidaggini. Ancor più stupido è colui che dà un peso concreto a queste parole.

giovedì 27 giugno 2013

Bene, adesso basta (III)


3. Non si sfugge alla macchina
Gilles Deleuze (1925-1995), forse il più grande filosofo francese del Novecento, affermava che: «On n’échappe pas de la machine». Ma qual è la macchina a cui Deleuze, e CB di rimando, si riferiscono? La storia, ovviamente. Perché tutta la storia che ci portiamo sulle spalle non è altro che la manifestazione eziologica della borghesia, della libertà, dello Stato. La machine è pressante quotidianamente negli affetti, nel lavoro, nella passione, nel dolore, nell’entusiasmo. Quale libertà è mai possibile se la machine foraggia il lavoro? Nessuna, infatti non si può esser davvero liberi se lo Stato fa di tutto affinché i suoi cittadini siano occupati: in parole povere, la macchina cerca di occupare il nostro vuoto con attività direttamente utili alla macchina stessa. È nella vera disoccupazione la libertà dalla macchina. Come pure sta nel rifiuto dell’amore, uno degli altri escamotage inventati dalla storia per preservare la specie, per ordinare in matrimoni, coppie e affetti l’infinita vaghezza dell’uomo. La libertà, questa terribile catena che incatena l’uomo a ciò che non esiste, si fa ancor più indecente nella stampa e nell’informazione. La libertà di stampa è un mostro da uccidere e, forse, si rende sopportabile solo allorché diventa libertà dalla stampa. Come può la stampa informare sui fatti se non fa altro che informare i fatti? Proprio per la confusione semiotica venutasi a creare tra atto, fatto e azione (come spiegato nel precedente intervento), i mezzi di stampa, che le democrazie portano sugli altari come supremo segnale di libertà, non fanno che parlare di fatti – per definizione, non più esistenti, quindi non più nei fatti. In "Guerra e pace" (1865-69) Lev Tolstoj (1828-1910) sosteneva che: «L’arma più potente dell’ignoranza [è] la diffusione di materiale stampato». A tal riguardo concentriamoci su come la machine deleuziana brutalizzi ogni legittima aspirazione al buio. Non si sfugge alla macchina, dunque. Schiere di filosofi ed artisti (da Schopenhauer e Kierkegaard fino a Piero Manzoni e Lucio Fontana) hanno cercato di spezzare questo giogo ma Bene c’ha convinto che né lo strumento del pensiero né quello dell’arte sono in grado di rompere la catena di montaggio. La soluzione è sempre la stessa: uscire da sé e dalla storia. Depensando fino a decostruirsi, riducendo fino a scomparire, annientando fino a non lasciar traccia alcuna; il tutto si traduce quindi in un’elevazione verticale della volontà di potenza. Tanto che CB non usa mai il concetto di nichilismo, né tantomento quello di trascendenza, ma è fin troppo chiaro che il suo essere oltre se stesso è ciò che i nichilisti hanno sempre tentato di spiegare, nel "Viaggio al termine della notte" (1932) di Céline (1894-1961) come ne "L'inconveniente di essere nati" (1973) di Emil Cioran (1911-1995). La fede nella libertà democratica – ovvero la servitù alla macchina – ha finanche convinto i cittadini – ovvero i sudditi dello Stato – ad uno scandaloso capovolgimento di ruoli: da elettori ad eletti. La bestia della democrazia, attraverso l’alfabetizzazione delle masse, ha cioè confuso i piani sociali a tal punto che il votante, stanco della sua mansione quotidiana, ha potuto aspirare all’onorabilità di esser eletto. Il risultato? I giovani rappresentano la classe politica peggiore mai esistita in questo Paese. Insomma, bisogna smettere di produrre capolavori ma essere dei capolavori. Senza vanità, senza entusiasmo, senza passione. Essere finalmente per essere. Oltre la macchina, al di là del deus ex machina.

mercoledì 26 giugno 2013

Bene, adesso basta (II)


2. Poi, d’incanto, apparve alla Madonna
«Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l'ha vista mai. […] I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso […]. Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo». CB la Madonna non la vide mai, se non guardandosi allo specchio. E questo perché il depensamento beniano, come tutte le grandi intuizioni, è pregno di religiosità. Da Aristotele a Hermann Hesse (1877-1962), lo spiritualismo gnostico di Bene è presente in tutti i secoli della storia, geograficamente a Oriente come ad Occidente. E poi la grande bugia dell’atto e dell’azione, perché l’atto sconfessa sempre l’intento programmatico dell’azione, tanto che vengono a collimare finché l’attore – che viene da agere (perorare) e non c’entra niente col recitare (citare la cosa) – diventa egli stesso l’atto. Figuriamoci poi l’altrettanto enorme bugia del (mis)fatto. Chi si approccia al taoismo e, in generale, alle filosofie orientali, noterà la medesima assenza di oggettivazione (l’unica differenza è nel giudizio morale tra l’illuminazione e il sovrauomo). Ne "Lo zen e il tiro con l'arco" (1948) di Eugen Herrigel (1884-1955), questo professore tedesco di filosofia prende lezioni di tiro con l’arco da un maestro zen, fino a smascherare la menzogna della volontà, fino ad esser egli stesso l’arco, fino ad esser egli stesso la freccia, fino ad esser egli stesso il bersaglio, fino a non esser più lui. Come sosteneva Arnold Schönberg (1874-1951), padre della dodecafonia: «Ich bin nur das Sprachrohr einer Idee» (Sono solo l'altoparlante di un'idea); come Demetrio Stratos (1945-1979), leader degli Area, che cantava la voce nelle sue diplofonie e triplofonie; come san Giuseppe da Copertino che oltrepassava la sua santità fino a misconoscerla; come Francis Bacon (1909-1992) che dipingeva la pittura pur di non dipingere. Come tutti coloro che vanno oltre se stessi nell’interesse dell’arte, anche CB oltrepassò i dogmi dell’esistenza e apparve a Maria, la figura che in mariologia è per definizione advocata ancor prima che assumpta. In quel capolavoro della cinematografia italiana che è "Nostra Signora dei Turchi" (1968) l’impossibilità di agire è ben rappresentata da un Bene impacciato, istupidito, inconscio. Un santo autobeatificatosi che si rinnega sempre, si morde la coda ed infine impazzisce meritatamente. «I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all'assoluto comunque. Essere più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione».

martedì 25 giugno 2013

Bene, adesso basta (I)


Il corpo di Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene nasce in Salento il 1° settembre 1937 e muore a Roma il 16 marzo 2002. Impossibile sarebbe disvelare il capolavoro che si cela dentro questo corpo, abortito perché non voluto, rinnegato, ed infine smarrito, abbandonato, assieme al proprio io. Bene è oggettivamente il più grande attore e drammaturgo italiano del Novecento, anche se di questa oggettività ci interessa poco. Del suo essere capolavoro rimangono regìe, scritti vari, pellicole, articoli, libri, partecipazioni, interviste, prove d’attore, lezioni. Cercheremo di dipanare la matassa di significa(n)ti presenti nell’opera e nell’azione beniana, o sarebbe meglio dire nell’azione di coloro che operavano in Bene, proprio perché CB si desertificò a tal punto da diventare un condominio in cui diverse voci parlavano, discutevano, creavano e fluivano in un geniale e talentuoso intreccio di significati. Carmelo si è fabbricato e poi abbattuto, lasciandoci come prima certezza quella di esser diventato un classico, al pari di Shakespeare, Bufalino, Montaigne, Moravia, Eliot. E, per definizione, ciò che è classico non è mai di moda, né fuori di essa, non ha affini e non ha eguali, non ha tempo perché è eterno: a ben vedere, i classici non hanno contemporanei.

1. Il classico esonera dal contemporaneo
Cos’è classico? Come ebbe modo di definire Italo Calvino (1923-1985) in un articolo del 1981 per L’Espresso, «un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sè, ma continuamente se li scrolla di dosso»; è dunque un’opera che esercita una decisiva influenza sulla formazione dell’individuo. L’opera di CB, non per forza letteraria, rientra decisamente nella categoria dei classici. La sua vita, fattasi capolavoro con l’invenzione e la ricerca sulla macchina attoriale, è diventata classica essa stessa. Se pensiamo a Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), non fu lui a rendere l’Ermafrodito un capolavoro ma fu la statua a rendere capolavoro il Bernini, tant’è che egli ancor’oggi vive nell’opera tramandataci. Dunque anche Bene, come tutti i veri artisti, ha creato l’arte che va oltre di sé e che anzi rende arte l’artista stesso: nel caso specifico, CB ha reso possibile che la sua vita diventasse arte semplicemente non vivendola, riducendola, rifiutandola. Cronologicamente, fra tanti contemporanei di notevole interesse, Bene fu l’unico a diventare atemporale, offrendosi alle masse non come un grande artista del Novecento bensì come ars historica, ovvero come summa semantica di quanto è avvenuto da Adamo in poi. Riprendendo Calvino, possiamo senza dubbio confermare che «è classico tutto ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno». Verissimo, perché Bene fu sì uomo del suo tempo ma al contempo relegò la realtà politica, sociale e culturale di allora a qualcosa di già visto, già sentito, già conosciuto. Il suo uscire dalla storia e il suo essere da per sempre esistito lo pongono aristocraticamente su un livello superiore a qualsiasi individuo. In questa incessante riduzione del suo io, in questo svuotamento del concetto di soggetto, sta la realizzazione dell’Übermensch nietzschiano, ovvero nell’esenzione della volontà di potenza. Carmelo Bene sostituì Dio. Diventò Dio. Ed infine commise il più grave dei peccati, il deicidio, riducendosi/elevandosi all’Informe, come fosse un neonato, come l’Adorabile di Rimbaud, ben rappresentato da Pasolini in "Teorema" (1968) attraverso l’ospite che fa sesso con tutti i componenti della famiglia e li lascia sperduti e spaesati, addirittura catatonici, lui che viene dal deserto, lui puro e incomunicabile, lui eterno.