mercoledì 25 febbraio 2015

"Ecce Homo"


Cos’è l’antisemitismo? Quando ha cominciato a serpeggiare in Europa? Ha delle ragioni legittime di esistere? Quali danni ha provocato? Tutte queste domande, che oggi possono apparire anacronistiche o provocatorie, nascondono un periglioso dilemma intellettuale che mai è stato risolto definitivamente dalla cultura continentale. Cominciamo col dire che l’antisemitismo è una deriva ideologica, uno scadimento culturale nel quale la nostra Europa cadde, per mano dei tedeschi, oltre due secoli or sono. Il pensiero di Friedrich Nietzsche (1844-1900) ci aiuta a diradare la nebbia che avvolge quest’intoccabile argomento. Il filosofo sassone, nelle sue invettive antitedesche contenute in "Ecce Homo" (1888), parla chiaramente di una (con)fusione venutasi a creare dopo la riforma luterana, che egli deplora perché colpevole di aver rivitalizzato il cristianesimo in un momento di forte crisi, una crisi che avrebbe certamente ucciso la religione di Dio, facendola scomparire dal sentire europeo. Il mix di nazionalismo (pan)germanico e di enfasi protestante hanno in qualche modo nutrito l’antisemitismo, una dottrina che nell’Ottocento contava tra i suoi seguaci quasi tutti gli intellettuali tedeschi e non solo: da Goethe a Richard Wagner, passando per Proudhon, Michail Bakunin, Charles Fourier e T.S. Eliot. La barbarie tedesca fu quindi stigmatizzata da Nietzsche in maniera feroce, una volgarizzazione che il rinascimento italiano aveva già evidenziato quando comprese che la germanizzazione era stata la concausa più brutale del crollo dell’Impero Romano e di quel gusto estetico che fece grande Roma nel mondo, nella sfera politica come in quella religiosa. Il passaggio da una religione umana e civile, seppur pagana, al cristianesimo, fu, dal punto di vista filosofico, un tremendo abbattimento della potenza dell’uomo. Una religione che ora mitizzava la debolezza e la povertà era quanto di più lontano dalle naturali ambizioni dell’essere umano, stilizzato nel tipo romano. In questo discorso l’ebraismo gioca un ruolo da antagonista, in quanto nemico da abbattere per rendere più pura e forte la dottrina dominante della Nazione, della cultura tedesca, del Cristo fattosi uomo, dell’uomo che aspira a farsi Cristo. È così che diventa facile capire come il nazismo, l’ideologia che mise in pratica nel modo più criminale l’antisemitismo, abbia semplicemente cavalcato un’onda intellettuale che riscoteva notevole consenso. Non fu populismo e non è paragonabile ai riflussi antisemiti di oggi. L’annientamento degli ebrei per mano nazista fu un processo idealizzato, pensato, voluto, condiviso e messo in pratica dall’intera nazione tedesca. Condannare il sentimento antisemita significa dunque condannare gli ultimi tre secoli di storia della Germania. Ve la sentite?

Friedrich Nietzsche (1969), Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano, pp. 200

lunedì 23 febbraio 2015

"Classici americani"


Nei suoi "Classici americani" (1923), titolo tradotto con vena ancor più sarcastica dall’originale "The symbolic meaning. Studies in classic American literature", l’inglesissimo David Herbert Lawrence (1885-1930) fa a pezzi tutta la letteratura americana del suo tempo, accusandola, al pari di ogni buon intenditore di arti, d’essere superficiale. Tutti i più grandi, da Edgar Allan Poe (1809-1849) a Herman Melville (1819-1891), Fenimore Cooper (1789-1851), Benjamin Franklin (1706-1790), Nathaniel Hawthorne (1804-1864) e Walt Whitman (1819-1892), appaiono qui foschi e mediocri, scribacchini incapaci di approfondire il materiale umano che andavano descrivendo. Tra gli undici saggi critici presentati da Lawrence, è quello su "Due anni a prora" (1840) di Richard Henry Dana (1815-1882) ad avermi condotto in osmosi col pensiero lawrenciano. In questa cronaca nautica v’è un episodio, banale quanto significativo, in cui tre personaggi interagiscono tra loro sulla base di rapporti fisici e ideali, comunque gerarchici, con un quarto, l’autore stesso, che resta a guardare la scena. Sam è un marinaio pigro e piuttosto indolente che, per via della sua sciatteria, viene fustigato dal capitano, nervoso a causa di una tempesta in corso. Dana, guardando la scena sanguinolenta, rabbrividisce, e, impotente, non può far altro che vomitare in mare. Arriva un altro marinaio, John, che si fa paladino di Sam chiedendo a gran voce il perché di quelle frustate. Il capitano, senza pensarci due volte, fustiga anch’egli. Lo spietato D.H. Lawrence ammette che finché il capitano frusta il pelandrone Sam, personaggio fisico, i rapporti di forza sono in equilibrio ed anzi scorre una qualche energia vitale tra i due, tanto che Sam, dopo tanta cieca violenza, si desta dal torpore e sembra in egli riattivarsi l’intelletto. Lawrence sostiene d’altronde che Dana, incapace di muovere un dito di fronte alla brutalità, abbia delegato a John, personaggio ideale, il ruolo dell’eroe o, peggio, del salvatore. Lo sguardo remissivo di Sam nei confronti di John e quello complice di John nei confronti di Sam, rappresentano la bugia insita nell’idealismo: non c’è possibilità di salvazione poiché esso è «confusione e sentimenti falsi». In questo come in tutti gli scritti di Lawrence è rinvenibile una certa aristocrazia di pensiero, quell’approccio elitario e nichilista ad un tempo teso ad abbattere ogni trionfalismo, ogni eroismo, ogni scintilla di vita umana.

D.H. Lawrence (2009), Classici americani, a cura di P. Dilonardo, Adelphi, Milano, pp. 256

mercoledì 18 febbraio 2015

"Il principio maggioritario"


Tutte le democrazie basano la legittimità su un principio tanto semplice quanto innaturale: il principio maggioritario. I più vincono sui meno, la parte maggiore decide anche per quella minore, sostituendo in un sol colpo l’istituto dell’unanimità, unica e più naturale via per il vivere comune. In realtà il principio maggioritario è passato nei secoli attraverso molteplici peripezie, dalle πόλεις (polisgreche alla romanità, dal Medioevo germanico alla riforma luterana, fino ad arrivare ai giorni nostri come un figlio spurio del parlamentarismo inglese e della formula federativa elvetica. Come contraltare, il principio maggioritario deve quindi includere anche il dissenso, ovvero il principio minoritario. Far sì che la maggioranza abbia ragione e governi non significa certo attribuire un valore di giustezza, equità e bontà alla sua ragione. Significa semplicemente constatare empiricamente la presenza, all’interno di un’unità, di una parte numericamente più sostanzionsa della restante. Questo è perlomeno ciò che il giurista Edoardo Ruffini (1901-1983), orgoglioso antifascista, articolò nel suo coinvolgente libro del 1927 "Il principio maggioritario". Con più malizia ci si accorge che il principio maggioritario è coercitivo sin dalla nostra venuta al mondo in quanto esseri umani. Cos’è infatti che obbliga un nascituro a sottostare alle regole dello status quo? La risposta democratica sta nell’implicita accettazione del contratto democratico che la maggioranza già vivente ha stipulato con lo Stato. È facile comprendere come questa sia una scorciatoia al problema e come sia facilmente attaccabile dai sostenitori del principio minoritario. La democrazia, al pari di qualsiasi regime statale, non accetta la fuoriuscita da essa se non bandendo il cittadino che dimostra di non sottostare alla legge della maggioranza. Essere banditi può quindi assumere il senso di un profondo rifiuto dei mezzi con cui il governo democratico governa il proprio paese. Di tutti i sistemi di governo la democrazia è certamente quello più accettabile, perché perlomeno si avvicina - ma non tende - all’unanimità. Resta intatto dunque il consiglio di non trattare il principio maggioritario come una taumaturgia, attribuendogli poteri miracolosi o, peggio, riconoscendogli prodigi di bene ed utilità per il fine ultimo della collettività.

Edoardo Ruffini (1976), Il principio maggioritario. Profilo storico, Adelphi, Milano, pp. 139

lunedì 16 febbraio 2015

"Sotto il nome del cardinale"


L’ingiustizia esiste da sempre e sempre esisterà. È una delle prime lezioni che si impartisce ai bambini. Ma l’ingiustizia è ancor più ingiusta quando la vittima è indifesa e non può porre umano rimedio al male ricevuto se non ammettendo colpe che non ha. Questa è la storia del religioso Giuseppe Ripamonti (1573-1643), grandissimo storico presso la curia ambrosiana del XVII secolo; è al contempo la storia di Federico Borromeo (1564-1631), munifico cardinale nonché arcivescovo di Milano, creatore della eccezionale Biblioteca Ambrosiana. Il primo è la vittima, il secondo il carnefice. Il Borromeo che fuoriesce dalle pagine di "Sotto il nome del cardinale" è un uomo tanto magnifico quanto avido di fama. Nel dettagliato saggio di Edgardo Franzosini (1952), che va a pescare in missive, documenti e saggi storici, viene raccontata una vicenda brutta e misconosciuta, che mette in dubbio molti meriti del cardinale manzoniano, primo fra tutti quello di latinista. Dallo studio di Franzosini si evince che molti degli scritti latini dell’arcivescovo erano in realtà frutto del lavoro di Ripamonti, il quale, pur di concludere la pesantissima esperienza carceraria a cui Borromeo l’aveva costretto - accusandolo di eresia, cattive frequentazioni e sodomia -, firmò la rinuncia ad appellarsi presso il papa per rivendicare i diritti d’autore sulla "Historia ecclesiae Mediolanensis", che Borromeo aveva usurpato apponendovi la propria firma, ammettendo il Ripamonti di aver svolto la mansione di semplice copista, oggi diremmo ghostwriter. Raccontata così, questa storia sembra una baruffa tra intellettuali, una prevaricazione dell’incolto potente sul debole dotto ai tempi della santa inquisizione, ma nelle pagine del libro l’ingiustizia subita da Ripamonti assume i tratti caratteristici del potere che non ammette interferenze al proprio status quo. È curioso come nelle stesse carceri in cui fu rinchiuso lo storico brianzolo albergherà contemporaneamente anche Marianna de Leyva (1575-1650), la celeberrima Monaca di Monza, altro personaggio chiave de "I promessi sposi" (1827). La fama del Ripamonti tornerà a splendere dopo la morte del cardinale e il riconoscimento della sua opera - il "De peste" (1640) su tutte - ma quella del Borromeo è ancora lungi dal venir ammaccata.

Edgardo Franzosini (2013), Sotto il nome del cardinale, Adelphi, Milano, pp. 169

venerdì 13 febbraio 2015

"L'uomo della novità" e "Tesi per la fine del problema di Dio"


C’è stato un momento nella storia italiana in cui, contemporaneamente alla rinascita democratica, è stato possibile un rinnovamento religioso del nostro popolo. Ci riferiamo al tentativo di Ferdinando Tartaglia (1916-1987) - prete cattolico scomunicato a divinis - di riformare, subito dopo la seconda guerra mondiale, la Chiesa di Roma attraverso una profonda trasformazione morale, che andava dalla ritrovata purezza della religione all’emancipazione della donna, in una sorta di religione letteraria che attingeva da Marcel Proust e Gabriele D’Annunzio, Cecco Angiolieri e Baruch Spinoza, Giovanni Pascoli e Nikolaj Berdjaev, Aldo Capitini e Charles Lamb, creando un acceso dibattito negli ambienti intellettualmente più focosi del tempo, riuscendo persino a metter d’accordo fascisti, democristiani, anarchici e comunisti (vedi "Tesi per la fine del problema di Dio", 1949). Tartaglia era in grado di miscelare l’indeterminatezza delle filosofie e delle religioni orientali - il buddismo su tutte - con l’austera liturgia delle confessioni europee, riuscendo, agli occhi degli stolti, al massimo come un protestante, un calvinista, un nuovo Martin Lutero. Nel bel libro di Giulio Cattaneo (1925-2010) - il cui titolo, "L'uomo della novità", racchiude sommamente l’avvento della rivoluzione - il pensiero tartagliano, spesso vicino al Tao, appare assai sfuggente per venir codificato dalle masse, a quel tempo troppo indaffarate a vestire casacche partitiche opposte e a spartirsi la torta ideologica del dopoguerra. L’ammutolimento delle opposizioni deciso dal ventennio mussoliniano aveva provocato, sin dal 1948, un’accesa competizione in un paese affamato di politica eppur così politicamente immaturo. La riforma religiosa di Tartaglia arrivava dunque in un momento intellettualmente vivo, fin troppo vivo per una trasmigrazione di valori religiosi. Fu però un atavico bigottismo, di stampo tipicamente cattolico, a suggellare la fine dell’utopia di Tartaglia con l’etichetta di eretico. È su alcune riviste conservatrici che si cominciò ad utilizzare il neologismo tartagliare, come di qualcuno che parla a sproposito, senza senno. E nel 1960, in uno degli ultimi dibattiti pubblici, l’eretico Ferdinando affermò: «Tartaglia è il nome di una maschera: maschera tace e fugge, per eco ed eco di teatro». Fu così che la sua meteora si spense, e di conseguenza morì il sogno di un rinnovato cristianesimo fatto di spirito e non di materia.

Giulio Cattaneo (2002), L’uomo della novità, Adelphi, Milano, pp. 119
Ferdinando Tartaglia (2002), Tesi per la fine del problema di Dio, Adelphi, Milano, pp. 160


giovedì 12 febbraio 2015

"Paura"


"Angst" è una novella scritta nel 1910 e pubblicata dieci anni dopo, originariamente tradotta dal tedesco col titolo letterale "Angoscia". Adelphi l’ha invece ripubblicata intitolandola "Paura" (già adoperato negli adattamenti cinematografici), dilatandone in qualche modo il πάθος (pathos). L’inquietudine del titolo è dovuta al tradimento perpetrato dalla signora Irene ai danni del marito, il noto avvocato Fritz Wagner; tradimento che verrà scoperto da una terza donna, costringendo la protagonista a cedere a ricatti psicologici ed estorsioni economiche, pena la distruzione del proprio sbiadito incanto borghese. Stefan Zweig (1881-1942), sempre così lucido nel raccontare le ansie umane, tratteggia una donna estremamente spaventata, sull’orlo del suicidio, incapace di vuotare il sacco di fronte al marito, il cui castigo non starà nella confessione bensì nell’automacerazione psicologica e spirituale. Nelle pagine di "Paura" Irene Wagner, oltre a mostrare tutte le avvisaglie del panico, riscoprirà gli affetti familiari nonché tutto il gusto per le piccole cose, ed infine prenderà coscienza di quanto il marito la ami. Ecco, è forse proprio questo il senso ultimo del racconto di Stefan Zweig. Non tanto il disegno psicologico, il pedinamento poliziesco, il gusto del thriller unito al dramma: più di tutto "Paura" è un libro sull’amore. Un amore scolorito, cercato, tradito, perdonato, ritrovato.

Stefan Zweig (2011), Paura, trad. di A. Vigliani, Adelphi, Milano, pp. 113

mercoledì 11 febbraio 2015

"Ombre sull'erba"


Questo è un libro che, se pubblicato oggi, provocherebbe biasimo, sdegno, finanche scandalo. Un’europea in Africa - emblema del colonialismo - con uno stuolo di servitori e il pallino per la caccia grossa. In realtà quello di Karen Blixen (1885-1962) è un accalorato atto d’amore al vecchissimo continente, una terra in cui la scrittrice e pittrice danese ha vissuto per molti anni, fedelmente servita dal nero Farah, gentleman somalo musulmano. In Africa la Blixen ha avuto modo di vedere l’arroganza di alcuni europei dalle tasche gonfie così come l’inutilità della caccia slegata dalla necessità di procacciarsi il cibo. Ma soprattutto ha conosciuto un continente superbo, abitato da tribù orgogliose e credulone, eppur piene di quella dignità che ha consentito loro di approcciarsi al bianco senza perdere la propria identità. L’europeo è ricco, miscredente e conosce la medicina; l’africano è povero, pio e superstizioso: tra questi due tipi umani può correre diffidenza, paura, finanche odio. In "Ombre sull’erba" (1961), invece, Karen Blixen, che rappresenta la gelida tramontana del mondo boreale, entra via via in osmosi con l’ardente scirocco del mezzogiorno, rappresentato dal suo servitore Farah. Due anime e due popoli qui collaborano, si confidano, s’imbeccano, si aiutano a vicenda, ed ogni differenza sembra sparire come il sole in un tramonto africano.

Karen Blixen (1985), Ombre sull’erba, trad. di S. Gariglio, Adelphi, Milano, pp. 118

martedì 10 febbraio 2015

"La passeggiata" e "La rosa"


Leggere quel capolavoro de "La passeggiata" (1917) può apparire davvero una passeggiata se confrontato a "La rosa" (1925), raccolta di microgrammi scritti poco prima del definitivo internamento dello scrittore svizzero in clinica psichiatrica. Ossessionato da voci, allucinazioni ed ansie, Robert Walser (1878-1956) ci ha lasciato queste quaranta prose, spesso indecifrabili, quasi fossero soggetti cinematografici, incipit letterari, condensati in pochissime pagine eppure completi dal punto di vista della trama. L’universo dei personaggi walseriani è costellato di donne in apparenza insicure - che nascondono spesso una verità più alta ("Gerda"), un amore mai sopito ("L’urna" e "La donna amata") o un’insulsa vanità ("La strana ragazza") - oppure appartengono alla fauna umana circostante ("Uno scolaro modello" e "Un ceffone e altre cose"), od infine possono essere letterati ("Wörishöfer" e "Sacher-Masoch") e recensioni di opere letterarie ("L’idiota di Dostoevskij", "La novella di Keller" e "Ludwig"). Scoperto assai tardi e forse mai realmente apprezzato, Robert Walser rappresenta il mondo post-nietzschiano, in una tragica deriva tra la volontà di potenza e l’infinita piccolezza dell’essere. Lo svizzero rappresenta proprio quella tensione esistente tra i due estremi del continuum, ed il prezzo da pagare al fine non può che essere la follia. In questa raccolta Walser diventa finalmente se stesso; egli si transustanzia al rango di superuomo: non c’è più nulla che possa lusingarlo o abbatterlo, nulla è ormai fuori di lui. Ne "La rosa" è pure intatto il tipico punto d’osservazione walseriano, la Morgenspaziergang, quella passeggiata mattutina che dà modo all’autore di guardare il mondo circostante e, come fosse sulla sommità d’una rocca inscalfibile, crogiolarsene accondiscendendo, deridendo, giudicando, senza tuttavia l’ombra di una condanna.

Robert Walser (1976), La passeggiata, trad. di E. Castellani, Adelphi, Milano, pp. 106
Robert Walser (1992), La rosa, trad. di A. Bianco, Adelphi, Milano, pp. 146


giovedì 5 febbraio 2015

"Il fattore della verità"


Un libro come "Il fattore della verità" (1975) di Jacques Derrida (1930-2004), tanto complesso perché specialistico, dà luogo a riflessioni le più disparate. Lo scritto dell’intellettuale francese è una dettagliata analisi filosofica dell’altrettanto minuziosa critica psicoanalitica mossa da Jacques Lacan (1901-1981) a "La lettera rubata" (1845) di Edgar Allan Poe (1809-1849), ed entrambi gli studi cercano di ampliare la visione freudiana. Nel libro di Derrida vi sono però due temi importantissimi e non troppo scontati: il concetto della phonè all’esterno della parola e il concetto di fallo all’interno della sessualità femminile. Tralasciando la prima, cui andrebbe dedicato un intero trattato, ci occuperemo solo del secondo. Il fallogocentrismo, sostiene Derrida, trae la propria linfa dal fatto che il pene è il desiderio della madre/donna in quanto essa non lo possiede. Il fallo è dunque l’organo che simboleggia in primo luogo un pene materno. Questo dà vita all’androcentrismo, in cui la donna rappresenta l’altro e, al pari di Sigmund Freud (1856-1939), v’è qui una sola libido, di natura ovviamente maschile. Nel testo c’è poi un’interessante digressione di Marie Bonaparte (1882-1962), amica e allieva di Freud, su come la lettera che pende al di sopra del camino rappresenti, nel racconto di Poe, il pene femminile - che non c’è e che anzi è ridotto a clitoride - che pende sulla cloaca della donna, sul buco, la vagina. Tutti coloro che si sono interessati allo scritto di Poe ne hanno quindi fornito una lettura fortemente sessualista. Se l’interpretazione della Bonaparte è puerilmente edipica e quella di Freud coinvolge il concetto di castrazione femminile trasferibile nel bambino, è quella di Lacan e Derrida a spingersi negli anfratti più ancestrali della sessualità femminile risolvendo l’enigma con la logica del paiolo («Quando ti ho reso il paiolo era intatto. E poi quando me l’hai prestato era già bucato. E poi non mi hai mai prestato un paiolo…»), ovvero con l’intelletto, dato che «la ragione avrà sempre ragione. Di (per) sé. Essa si intende. La cosa parla di (per) sé. Essa si intende dire ciò che non può intendere». In realtà, per comprendere appieno "Il fattore della verità" è necessario leggere anticipatamente "La lettera rubata": scovare il senso recondito della missiva trafugata, intuirne contenuto e mittente, comprendere l’importanza del suo ritrovamento e della relativa restituzione al legittimo destinatario, quindi trasmutare la situazione contingente in un pensiero culturalmente più articolato per poterne apprezzare gli svicolamenti intellettuali effettuati nel corso del tempo. Quello di Jacques Derrida resta un libro pregno di significa(n)ti, un’opera che si pone non troppo umilmente come case study psicoanalitico.

Jacques Derrida (1978), Il fattore della verità, trad. di F. Zambon, Adelphi, Milano, pp. 177

domenica 1 febbraio 2015

"Il Re del Mondo" e "Gli dèi dei Germani"


Se cristianesimo, ebraismo ed islam condividono tra loro una radice comune storicamente comprovata, altrettanto non può dirsi per le religioni d’oriente (buddhismo, induismo, religione vedica, shinto e confucianesimo) e per quelle ormai estinte (il paganesimo greco-romano, il druidismo celtico, la religione egizia e la mitologia norrena). Tuttavia dagli studi di Georges Dumézil (1898-1986) e René Guénon (1886-1951) è possibile trarre alcune conclusioni - paradossali e per questo molto coinvolgenti - sugli aspetti comuni che tutte le religioni fin qui citate presentano. Tra i più singolari evidenziamo il caposaldo di trinità e il concetto di spirito. Nel suo inconsumato "Il Re del Mondo" (1927), basato sulla ricerca di Ferdynand Ossendowski (1876-1945), Guénon individuava in Agarthi, luogo sotterraneo abitato da esseri semidivini, la primigenia sorgente della spiritualità umana. È legittimo pensare che Agarthi abbia dato linfa alla mitologia di Atlantide, quell’isola perfetta in cui regnavano cultura e spiritualità prima che il sentimento umano prendesse il sopravvento, facendola affondare. Altrettanto legittima è la connessione col Monte Olimpo e, più generalmente, con la nostra idea di paradiso. Il paganesimo greco-romano, notoriamente antropomorfo, era pieno di figure divine che esibivano vizi e virtù degli uomini, a cui si aggiungevano poteri soprannaturali che li distinguevano dai mortali: l’assenza della mortalità era però vissuta dagli dei come un dramma perché non consentiva loro di godere appieno dei frutti del mondo terreno. Ad esempio Zeus (Giove), dio degli dei, unito a Era (Giunone), sovente si permetteva delle scappatelle con altre entità, divine o terrene, trasformandosi di volta in volta in spirito e riuscendo così ad oltrepassare gli ostacoli fisici che si frapponevano tra il suo appetito e la relativa sazietà. Immediatamente nasce il confronto tra la gioviana natura incorporea e lo Spirito Santo di matrice cristiana, quello stesso respiro che ingravidò Maria, rappresentante del femminino sacro (come Giunone lo era per la mitologia romana). Sorprendenti sono poi le similitudini tra le religioni abramitiche e quelle orientali. Seppur giunte a due baie della spiritualità tra loro lontanissime, esse convergono proprio nell’aspetto trinitario della divinità: nella religione indù la Trimurti è infatti rappresentata da Brahma, Vishnu e Shiva. Altrettanto sorprendente è la natura divina di Asgard - legittimo credere che sia l’Agarthi di Guénon -, il regno scandinavo dove risiedevano Odino, Thor e Freyr. Proprio da "Gli dèi dei Germani" (1959) di Georges Dumézil è possibile ricavare informazioni utili sulla disputa tra asi e vani, le due famiglie celesti della Scandinavia, con suggestive riproposizioni delle caricature olimpiche od egizie. Nel mondo esistono molte confessioni religiose e la maggior parte delle persone afferma di credere in una qualche entità spirituale superiore; sta di fatto che le religioni del mondo hanno parecchi punti in comune, anche se geograficamente distanti migliaia di chilometri. Questo può condurre a due sole conclusioni: o gli uomini hanno descritto Dio in maniera similare perché Egli esiste realmente, oppure perché decine di secoli or sono c’è stato uno scambio culturale sotterraneo tra le varie etnie del mondo, uno scambio che ancor oggi è quasi impossibile rintracciare. Una cosa è certa: Agarthi è proprio qui, sulla Terra.

René Guénon (1977), Il Re del Mondo, trad. di B. Candian, Adelphi, Milano, pp. 112
Georges Dumézil (1976), Gli dèi dei germani. Saggio sulla formazione della religione scandinava, trad. di B. Candian, Adelphi, Milano, pp. 154