venerdì 19 febbraio 2016

"Gli otto peccati capitali della nostra civiltà"


La ricerca storica e storiografica hanno inesorabilmente condannato il colonialismo. Persino Konrad Lorenz (1903-1989) lo inserì implicitamente tra "Gli otto peccati capitali della nostra civiltà" (1973). Fino al primo dopoguerra la dottrina nazionalistica ha spinto l’opinione pubblica a pensare al colonialismo come ad un diritto inalienabile dei paesi europei, ed era ovvio che dopo tanta propaganda si passasse al suo opposto, ovvero alla condanna internazionale del colonialismo stesso, nonché allo studio accurato degli strumenti da esso utilizzati, delle politiche adottate e dell’occupazione militare dei paesi terzi, mettendone sempre in cattiva luce gli intenti. È su quest’onda di pensiero che l’Africa ha cominciato a reclamare l’autonomia, cosicché tantissimi stati del Vecchissimo Continente hanno proclamato la propria indipendenza in un arco temporale molto ristretto che va dal 1° gennaio al 28 novembre 1960; basti pensare che nel 1959 gli stati sovrani africani erano nove; un anno dopo erano ventisei. Terminata ufficialmente nel 1993, la decolonizzazione ha realmente aiutato la libertà e il benessere di questi popoli? Sfogliando i dati sembra di no. Gli africani non godono ancora di ottima salute economica, anzi, in molti casi la situazione è tragica, disumana, assurda. C’è una soluzione a questo disastroso stato di cose? A mio avviso si potrebbe cominciare con alcune scelte - rischiose quanto impopolari - di politica estera. Se quelli che un tempo furono stati coloniali riallacciassero un fitto scambio di merci e risorse umane con le proprie ex colonie, la situazione potrebbe migliorare per ambo le parti. Si potrebbe cominciare con accordi bilaterali che consentano ai cittadini dei paesi firmatari il libero soggiorno nei rispettivi luoghi di provenienza: con riferimento al caso italiano, si verrebbe a creare un’area di libero passaggio di beni e persone con la Libia, l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia (caso parossistico, quest’ultimo). Affermare ciò può sembrare un patetico e nostalgico ritorno al passato, ma così non è. Pur in assenza di un’armonizzazione giuridica tra questi paesi e il nostro, sarebbe favorita l’imprenditorialità italiana in Africa, con conseguente trasferimento di know-how. Al pari, molti cittadini libici, etiopi, eritrei e somali potrebbero studiare nei nostri istituti, riportando in patria conoscenze specialistiche di alto livello accademico. Quest’area di scambio favorirebbe una moltitudine di attività pubbliche e private che ora è impossibile elencare: ricerca sanitaria, industria tessile, materie prime, scuola ed università, scambi culturali, scienze dell’amministrazione, artigianato, tecniche agricole, turismo. Ovviamente il discorso varrebbe anche per tutti gli altri europei che hanno avuto una special relationship con gli africani: inglesi, francesi, tedeschi, belgi, olandesi, spagnoli e portoghesi. Quella che un tempo veniva chiamata con spregio torta africana, oggi potrebbe diventare un’opportunità di umanesimo liberale, teso a favorire l’integrazione e il benessere comune, prospettive che aiuterebbero ad uscire noi dalla crisi e loro dalla povertà. Ad oggi, la presenza italiana nelle ex colonie è assicurata soltanto dalle sparute onlus per l’assistenza alimentare e sanitaria o da programmi industriali di così vasta portata che i semplici cittadini faticano a vederne i frutti (mi riferisco alla presenza dell’Eni in Libia e in Nigeria). Sarebbe invece opportuno metter da parte gli antichi rancori e ritrovare una fratellanza, seppur artificiale, con paesi che sono stati il nostro passato e verso i quali abbiamo un debito umano da ripagare.

Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, trad. di L. Biocca Marghieri e L. Fazio Lindner, Adelphi, Milano, 1974, pp. 145.

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