mercoledì 24 febbraio 2016

"Il giorno della civetta"


Si può aggiungere qualcosa a "Il giorno della civetta" (1961) di Leonardo Sciascia (1921-1989)? Credo di no. Però di mafia si può parlare, e ancor più si deve parlare di Meridione. Gli osservatori stranieri si chiedono da decenni come sia possibile che la criminalità organizzata sia così forte in Italia, si chiami mafia, 'ndrangheta, camorra, sacra corona unita o basilischi. Una spiegazione c’è... ma è paradossale. Sin dalle sue origini la mafia - useremo qui la mafia a mo’ di metonimia per tutte le altre organizzazioni criminali di stampo meridionale - si è caratterizzata per la sua natura statuale antisistema. Lasciamo agli storici analizzare a fondo la questione del brigantaggio, strettamente connessa con l’affermazione della mafia al Sud, ma certamente essa è emersa al pari dello Stato moderno, forse precedendolo, e parallelamente allo Stato sovrano. Il paradosso italiano sta quindi nella simultanea presenza di due apparati statali sul medesimo territorio geografico, e tale paradosso non si riduce alla tesi spesso utilizzata da molti giornalisti e politici: essi hanno infatti imputato allo Stato, - o meglio, alla sua assenza - il predominio della mafia in determinati luoghi. Paradossalmente, ancora una volta, in città come Napoli, Bari, Palermo, Caserta, Foggia, Reggio, Catania, e nei rispettivi hinterland, vi sono più istituzioni che altrove, come se lo Stato volesse colmare la sua assenza rispondendo semplicemente all'appello. E, al pari di un apparato statale, anche la mafia s’è legittimata sul territorio con strutture proprie, e codesta legittimazione ha creato negli anni una sorta di fedeltà dei cittadini verso di essa. Per combattere la mafia restano due soluzioni: dichiararle guerra, e il metodo brasiliano nelle favelas è piuttosto emblematico, oppure accontentarsi di un patto di non belligeranza, come quello che fu stretto negli anni Novanta. Controproducente la prima, immorale la seconda. Fin qui nulla di nuovo è stato detto. Ancor più paradossale appare dunque la scelta politica antimafiosa. Partendo dall’assunto che, combattendo la mafia, si parteggia implicitamente per lo Stato, è ridicolo constatare che buona parte dell’extraparlamentarismo di sinistra - oggi meno di ieri, questo almeno va precisato - abbia appoggiato la causa antimafiosa mentre era già apertamente in guerra con le istituzioni repubblicane, accusate d’esser fasciste, conservatrici, reazionarie, repressive, clericali. Questi errori di prospettiva commessi in passato dal Pci, sommati alla maliziosa connivenza della Dc, hanno lasciato intatto il dominio della mafia sulla sua terra. Una terra che oggi non è Italia. A parole la mafia la combattiamo tutti, seduti su poltrone e sofa, ai tavoli dei ristoranti, durante i girotondi e le fiaccolate, via radio, via cavo, via web. La combatto persino io, dietro la tastiera d'un computer. Ditemi voi se questa non è serietà!

Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Adelphi, Milano, 1993, pp. 117.

venerdì 19 febbraio 2016

"Gli otto peccati capitali della nostra civiltà"


La ricerca storica e storiografica hanno inesorabilmente condannato il colonialismo. Persino Konrad Lorenz (1903-1989) lo inserì implicitamente tra "Gli otto peccati capitali della nostra civiltà" (1973). Fino al primo dopoguerra la dottrina nazionalistica ha spinto l’opinione pubblica a pensare al colonialismo come ad un diritto inalienabile dei paesi europei, ed era ovvio che dopo tanta propaganda si passasse al suo opposto, ovvero alla condanna internazionale del colonialismo stesso, nonché allo studio accurato degli strumenti da esso utilizzati, delle politiche adottate e dell’occupazione militare dei paesi terzi, mettendone sempre in cattiva luce gli intenti. È su quest’onda di pensiero che l’Africa ha cominciato a reclamare l’autonomia, cosicché tantissimi stati del Vecchissimo Continente hanno proclamato la propria indipendenza in un arco temporale molto ristretto che va dal 1° gennaio al 28 novembre 1960; basti pensare che nel 1959 gli stati sovrani africani erano nove; un anno dopo erano ventisei. Terminata ufficialmente nel 1993, la decolonizzazione ha realmente aiutato la libertà e il benessere di questi popoli? Sfogliando i dati sembra di no. Gli africani non godono ancora di ottima salute economica, anzi, in molti casi la situazione è tragica, disumana, assurda. C’è una soluzione a questo disastroso stato di cose? A mio avviso si potrebbe cominciare con alcune scelte - rischiose quanto impopolari - di politica estera. Se quelli che un tempo furono stati coloniali riallacciassero un fitto scambio di merci e risorse umane con le proprie ex colonie, la situazione potrebbe migliorare per ambo le parti. Si potrebbe cominciare con accordi bilaterali che consentano ai cittadini dei paesi firmatari il libero soggiorno nei rispettivi luoghi di provenienza: con riferimento al caso italiano, si verrebbe a creare un’area di libero passaggio di beni e persone con la Libia, l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia (caso parossistico, quest’ultimo). Affermare ciò può sembrare un patetico e nostalgico ritorno al passato, ma così non è. Pur in assenza di un’armonizzazione giuridica tra questi paesi e il nostro, sarebbe favorita l’imprenditorialità italiana in Africa, con conseguente trasferimento di know-how. Al pari, molti cittadini libici, etiopi, eritrei e somali potrebbero studiare nei nostri istituti, riportando in patria conoscenze specialistiche di alto livello accademico. Quest’area di scambio favorirebbe una moltitudine di attività pubbliche e private che ora è impossibile elencare: ricerca sanitaria, industria tessile, materie prime, scuola ed università, scambi culturali, scienze dell’amministrazione, artigianato, tecniche agricole, turismo. Ovviamente il discorso varrebbe anche per tutti gli altri europei che hanno avuto una special relationship con gli africani: inglesi, francesi, tedeschi, belgi, olandesi, spagnoli e portoghesi. Quella che un tempo veniva chiamata con spregio torta africana, oggi potrebbe diventare un’opportunità di umanesimo liberale, teso a favorire l’integrazione e il benessere comune, prospettive che aiuterebbero ad uscire noi dalla crisi e loro dalla povertà. Ad oggi, la presenza italiana nelle ex colonie è assicurata soltanto dalle sparute onlus per l’assistenza alimentare e sanitaria o da programmi industriali di così vasta portata che i semplici cittadini faticano a vederne i frutti (mi riferisco alla presenza dell’Eni in Libia e in Nigeria). Sarebbe invece opportuno metter da parte gli antichi rancori e ritrovare una fratellanza, seppur artificiale, con paesi che sono stati il nostro passato e verso i quali abbiamo un debito umano da ripagare.

Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, trad. di L. Biocca Marghieri e L. Fazio Lindner, Adelphi, Milano, 1974, pp. 145.

giovedì 18 febbraio 2016

"Il principe infelice"


L’euforia è un sentimento pernicioso. Altrettanto pericoloso è frequentare gli euforici. L’euforia è uno stato di esuberante e passeggera esaltazione in conseguenza del raggiungimento di un gradino intermedio prima della felicità. Ma perché questo stato d’animo è tanto maligno? Perché ottenebra in maniera temporanea il raziocinio. Ancor più che a livello individuale l’elettricità dell’euforia diventa disastrosa quando si fa collettiva. La storia pullula così tanto di ebbrezze che ricordarne alcuni importanti frangenti può far meglio comprendere quanta malvagità si annidi in questa bestia dell’anima. Prendiamo la caduta del Muro di Berlino: quando la notizia cominciò a serpeggiare tra gli europei, in molti si lasciarono traviare dall’inebriante odore della libertà, libertà che diventò concreta per chi viveva in DDR ma che a livello internazionale portò al crollo della stabilità politica, con conseguente atomizzazione dei centri di potere, finanche con l’esplosione del fanatismo religioso e del terrorismo. Prendiamo poi un caso a noi più vicino e interamente italiano: la caduta della Prima Repubblica ad opera del pool di Mani Pulite. Tanta fu l’eccitazione per il repulisti giustizialista operato dai giudici di Milano che alcuni, sull’onda dell’euforia più travolgente, trovarono il coraggio di umiliare un impareggiabile uomo di Stato come Bettino Craxi all’uscita dell’hotel Raphaël; quando il tremendo gasamento finì, ci ritrovammo con uno statista costretto all’esilio e un Paese abbagliato dal sogno berlusconiano. Ancora un esempio, attualissimo: la Primavera araba. Dopo l’esuberanza dei primi mesi, - quando i giovani nordafricani sembravano smontare letteralmente gli anciens régimes reazionari, con una più o meno pacifica e moderna rivoluzione fatta di internet, diritti, parità, democrazia e futuro - smorzatasi l’euforia, rimane un’Africa Settentrionale ancor più instabile (vedi l’Egitto), preda delle bande armate e dell’estremismo islamico (vedi la Siria) e senza interlocutori accreditati con cui conversare (vedi la Libia). L’euforia è un mostro da allontanare, è il disumano abbassamento dell’io. Al contrario, la leggerezza dell’entusiasmo andrebbe ricercata nelle piccole cose. Se leggete la favola de "Il principe infelice" (1943) capirete che la felicità è un fatto individuale, non un'estasi di massa, è una goccia nell'oceano, non l'oceano.

Tommaso Landolfi (2004), Il principe infelice e altre storie per bambini, Adelphi, Milano, pp. 143

martedì 16 febbraio 2016

"Yossl Rakover si rivolge a Dio"


Il misterioso libro di Zvi Kolitz (1912-2002) - incazzato e religiosissimo - e un viaggio in Terra Santa mi diede modo di riflettere sulla natura spirituale di una città da sempre teatro di scontri politici, culturali, religiosi ed economici: Gerusalemme, capitale non riconosciuta dello Stato di Israele, contesa maggiormente da ebrei e musulmani, dove i cristiani giocano un ruolo neutrale ma per niente secondario. La custodia della città e di tutti i luoghi della Palestina è affidata ai francescani, che rispondono direttamente al papa; la sovranità politica è invece appannaggio dello Stato semita, mentre a nord e a est gli arabi reclamano la loro parte e, di fatto, ce l’hanno, pur se fra mille problemi di natura perlopiù economica. I territori sotto l’autorità palestinese non hanno infatti alcun introito dalle attività commerciali di frontiera e di dogana. Ma ciò che più ci preme evidenziare in questa sede è il (mancato) dialogo spirituale fra le diverse confessioni lì operanti. Islamici sunniti e sciiti, ebrei riformati, haredim e sefarditi, cristiani cattolici, luterani, ortodossi greci, armeni e copti, melchiti; tutte le varie liturgie dei grandi monoteismi si combattono realmente, giorno dopo giorno, quasi dimenticando la valenza divina che Gerusalemme esercita su esse. Nella Basilica del Santo Sepolcro, dove la tradizione rinviene con certezza la cripta di Cristo, v'è un continuo avvicendarsi di riti e genti, tanto che, talvolta, non mancano le scazzottate tra i rappresentanti religiosi. Ma il sentimento di reciproca diffidenza che sovrano regna sulla Città della Pace è nella sostanza ben più profondo, almeno a livello eminentemente spirituale. La leggenda abramitica che ha dato vita alle tre religioni di massa affonda infatti le sue radici in una menzogna divina o, per così dire, semidivina, in quanto pretende di innalzare ogni uomo all’essenza di Dio, di riconoscere in qualche modo una vita pneumatica dopo la morte. Se il nodo centrale è stato risolto con faciloneria dalla teologia apofatica, permane tuttavia il bisogno di ogni religione di affermare l’unicità della propria visione. Lo scontro secolare tra queste presunzioni di compiutezza - simboleggiato nei millenni dal gusto estetico di Solimano, dalla reggenza di Baldovino, dalla estasiante vittoria di Saladino, dall’apertura mentale di Costantino ed Elena, fino ai giorni nostri dell’intifada e della guerra israelo-palestinese - ha provocato una sì incisiva stratificazione religiosa sul territorio di Gerusalemme da render vana, se non impossibile, una netta presa di posizione sull’ingarbugliata faccenda. Così come a livello politico, ancor più nell’ambito religioso, il manicheismo esistente tra il Regno di Dio e la città terrena s'è fatto concreto, alimentando un clima di perpetuo sospetto, di odio latente, di inestinguibile diversità. Gerusalemme, molto più di Roma, Istanbul e La Mecca, resta una città sospesa, imprigionata nella sua natura di madre inadatta, una mammella che allatta tre figli sbagliati, con nipoti altrettanto sgarbati. È necessario comprendere che se verrà risolta la questione palestinese si spegneranno molti conflitti sul pianeta. Torquato Tasso, oltre quattro secoli or sono, parlava di una Gerusalemme liberata. E allora liberatela questa Città Santa, annullando una volta per tutte Dio dal vostro agire quotidiano, perché Dio non esiste, anche se c’è.

Zvi Kolitz (1997), Yossl Rakover si rivolge a Dio, trad. di A.L. Callow e R. Carpinella Guarneri, Adelphi, Milano, pp. 91.

martedì 5 gennaio 2016

"Le porte regali"


La religione cristiana, in tutte le sue confessioni, si caratterizza per l’uso millenario dell’iconografia attraverso una ritrattistica che include sia le scene sacre che le divinità stesse. Il Cristo, la Madonna, la Trinità, i santi, la Bibbia: tutto è stato rappresentato nei vari secoli da maestri, artisti ed artigiani che, con tecniche e interpretazioni spesso diverse, hanno impresso, sui più disparati materiali, la verità rivelata del Signore Nostro. D’altronde, il cristianesimo si contraddistingue dalle altre religioni abramitiche proprio per l’enfasi conferita alla figura del dio-uomo, più che a quella di Dio in quanto entità suprema e inintelligibile. Ne "Le porte regali" (1922) del misconosciuto mistico Pavel Florenskij (1882-1937) l’icona è qualcosa di metafisico: i colori utilizzati, la tecnica pittorica, la decorazione e il contorno, la scena ritratta. Finanche l’artista, legato indissolubilmente all’opera, è qui un uomo dalla vita integerrima, estranea al peccato e alle tentazioni. Egli, controllato a vista dalla Chiesa, è un mestierante del Padreterno, un artigiano che percorre la via del talento per raggiungere l’estasi. Ma tra le righe di questo interessantissimo libro c’è qualcos’altro, qualcosa che forse sfugge a tutte le altre religioni. Mi riferisco al fatto che l’iconografia è più forte della teologia, nel senso che se la seconda è comprensibile solo ad una sparuta minoranza di intellettuali, l’icona, al contrario, è rivolta alla massa. Essa ha dunque avuto una funzione educatrice – dal punto di vista religioso – incomparabilmente superiore alla speculazione teologica dei dottori della cristianità. Ciò ha portato a una maggiore dialettica all’interno della Chiesa e, non a caso, quella cristiana è stata la religione più conflittuale della storia: scismi, riforme, controriforme, l’hanno resa ciò che è oggi. L’icona che Florenskij indaga in maniera puntigliosa ha dunque avuto un ruolo più importante di quello che si è soliti pensare. Il cristianesimo, oggi giunto all’equilibrio e alla moderazione, deve essergliene infinitamente grato.

Pavel Florenskij (1977), Le porte regali, a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano, pp. 192.

mercoledì 23 dicembre 2015

"La nascita della tragedia" e "Anatol"


Da un lato c’è Friedrich Nietzsche (1844-1900), dall’altro Manlio Sgalambro (1924-2014). Utilizzeremo questi due filosofi per immortalare i secoli che rispettivamente rappresentano. Nietzsche, uomo dell’Ottocento, spianò la strada al secolo breve; il novecentesco Sgalambro, invece, preparò l’avvento del terzo millennio, del tutto simile al secolo precedente, almeno nei timori e nelle ossessioni. Il Nietzsche che scrive "La nascita della tragedia" (1876) non è ancora rinsavito/impazzito: il suo punto fermo sta nella dicotomia tra l’apollineo e il dionisiaco, un dualismo che ha contraddistinto tutta la critica accademica sul filosofo tedesco per molti decenni e che ancor oggi è dura a morire. Il Friedrich Nietsche anticristo è tuttora bollato, spesso, come un refuso mentale, una deriva ideologica della filosofia pura, un errore sul cammino speculativo della saggezza filosofica. Sgalambro, d’altronde, è il filosofo senza scuola, quello che ha abdicato agli strumenti e al metodo accademici. Tuttavia presentò nel 1990 "Anatol", un libro che criticava apertamente Nietzsche sul suo terreno, quello del nichilismo, infimo ed infido. La differenza sostanziale - che si fa secolare se la utilizziamo in maniera sineddotica - è che Manlio Sgalambro sosteneva di non poter fare a meno della teologia per dichiarare il Nulla. Nietzsche, al contrario, ne faceva volentieri a meno, e la parola Dio, nel suo vocabolario, più che vietata era semplicemente estinta. L’incendio appiccato dal tedesco viene dunque spento dal siciliano, a cui non manca il sorriso e un pizzico di umanità. In aggiunta, Sgalambro introduce il concetto di nolontà, atto con cui la volontà, negando il reale e se stessa, raggiunge la liberazione dal dolore. Pietà e misura, dunque.

Friedrich Nietzsche (1977), La nascita della tragedia, trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano, pp. 214
Manlio Sgalambro (1990), Anatol, Adelphi, Milano, pp. 167


lunedì 21 dicembre 2015

"Lenz"


Chi dice di amare la vita in realtà non ama la vita, ma il suo feticcio. L’ottimista, l’intraprendente, l’euforico, son tutte forme, più o meno sincere, della banalità. Chi dice di amare la vita evidentemente non ne avverte la gravità, non si vede schiacciato dalla sua terrificante mola che tutto stritola ed ottunde. Dunque gli accessi di gioia e dolore, rabbia e felicità, li lasciamo volentieri agli stolti. Incamminatici sul sentiero del pessimismo, oltrepassato il disfattismo, ci inerpichiamo per le selve del Nulla. Assieme a noi c’è Georg Büchner (1813-1837), una vita bella e devastata, una gioventù finita ancor prima di cominciare, un talento nato anziano, un drammaturgo azzeccato, un ragazzo nato nel posto giusto al momento giusto, uno scrittore inopinatamente sbagliato. Il personaggio Lenz, protagonista dell’omonimo racconto tragico del 1835, è egli stesso, è Büchner listato a lutto, camminatore infaticabile di cime, foreste e valli, a cui la pesantezza dell’esistenza è ogni minuto più insopportabile, eccessiva. Vede la morte, la conosce, ne resta terrorizzato. Eppure non demorde, tant’è che si suicida e, non riuscendoci, si vede costretto a continuare, come Atlante, l’antico esercizio di reggere il mondo sulle proprie spalle. Quella morte spaventevole e a breve agognata, Georg Büchner l’avrà a soli ventisei anni, col tifo che se lo porterà via come una foglia di basilico esposta al freddo invernale. Tuttavia Georg e il suo alter ego Lenz rimangono impassibili depositari dell’unica verità che tutto ammanta, ordina e redarguisce: si muore.

Georg Büchner (1989), Lenz, a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, pp. 99

venerdì 18 dicembre 2015

"Saggio su Pan" e "La pentola dell'oro"


Il dio Pan, più di tutti i suoi colleghi, rappresenta appieno la sostituzione di senso, contenuto e venerazione operata dal cristianesimo sulle divinità pagane, greche o romane. Pan è caos, sovvertimento, anarchia, panico. Ciò è vero soltanto per quest’epoca; non è detto che lo sia stato anche ad Atene o Roma. James Hillman (1926-2011), forse lo studioso che meglio ha disvelato la figura di Fauno, nel suo "Saggio su Pan" (1972) ha praticamente condotto una vera e propria psicoanalisi sulla mente del dio, dimostrando molte delle maliziose inesattezze che tuttora lo riguardano. Del pari, James Stephens (1880-1950) prese la figura di Pan e la inserì in un contesto sgarbatamente onirico che univa diverse e lontanissime tradizioni, dalla favolistica irlandese alla religione greca. Ne "La pentola dell’oro" (1912) il dio è bello e magnetico, defloratore e gentiluomo, in una struttura narrativa che pare attingere dal James Joyce (1882-1941) più recondito. Letti in successione, questi due libri, entrambi difficoltosi, offrono comunque una panoramica su colui che, da simbolo della mascolinità, – o meglio della masturbazione, da intendere come l’onorevole pratica dell’onanismo – si è tramutato in corruttore, traviatore, distruttore dell’ordine mondiale e della teoria della passività e infelicità cristiane.

James Hillman (1977), Saggio su Pan, trad. di A. Giuliani, Adelphi, Milano, pp. 137
James Stephens (1969), La pentola dell’oro, trad. di A. Motti, Adelphi, Milano, pp. 231


giovedì 29 ottobre 2015

"L'album perduto"


La figura del principe Charles Maurice de Talleyrand-Périgord (1754-1838) è passata alla storia per l’estremo trasformismo che ancor oggi incarna. Camaleontico ed opportunista, il vescovo parigino è sopravvissuto - più che sopravvissuto, ha supervisionato - le tre epoche più importanti di Francia: l’Ancien Régime, la Rivoluzione e la Restaurazione. Talleyrand è stato il protagonista occulto di una delle pagine più importanti della storia europea e, a dimostrarlo, c’è questo libello scritto dal poligrafo Henri de Lautoche (1785-1851), il quale raccolse moltissimi aneddoti e aforismi del principe strutturandoli a mo’ di romanzetto storico. Da "L’album perduto" (1829) vorrei trarre una sola citazione che forse può ben spiegare tanto l’intento letterario di Latouche quanto il carattere dissacrante di Talleyrand. Si riferisce al periodo della Restaurazione, dopo che molte teste erano state tagliate - dai rivoluzionari prima e dai reazionari poi -, allorquando il re Luigi XVIII di Borbone (1755-1824) chiese al politico di corte come avesse fatto a passare indenne il terribile periodo 1789-1814 e a restare praticamente sulla cresta dell’onda. Talleyrand, semplicemente, rispose: «Non ho fatto proprio niente; c’è in me qualcosa di inspiegabile che porta disgrazia ai governi che non mi apprezzano». Da questa massima si evince come l’opportunismo, senza unabbondante dose di intelligenza, sia mera ipocrisia. Il camaleontismo di Talleyrand rappresenta invece il più bel completamento politico del machiavellismo: entrambe queste correnti concorrono a creare il perfetto statista, padre della patria e amministratore dello stato a un tempo. Provate voi a verificare chi son stati i superstiti di qualsivoglia stravolgimento politico: troverete perlopiù volpi e lupi, assai più raramente veri uomini di governo. E proprio tra quei pochi si nasconde lo statista.

Henri de Latouche (1998), L’album perduto, a cura di F. Dupuigrenet Desroussilles, trad. di G. Cillario, Adelphi, Milano, pp. 175

giovedì 15 ottobre 2015

"Storia dell'eternità"


Nel primo saggio, eponimo, contenuto nella "Storia dell’eternità" (1936) di Jorge Luis Borges (1899-1986) mi è balzata all’occhio un’interessantissima quanto lucida impressione dell’autore che, intento a tracciare i confini del concetto di eternità, riporta l’esempio dell’uccello. «L’abitudine di radunarsi in stormi, le piccole dimensioni, l’identità dell’aspetto, l’assidua presenza ai due crepuscoli, quello dell’inizio e quello della fine del giorno, la circostanza che frequentino più il nostro udito che la nostra vista: tutto questo ci induce ad ammettere il primato della specie e la quasi perfetta nullità degli individui», come a dire che gli animali sono segnali d’eterno. Gli uccelli che vediamo librarsi nel cielo sono gli stessi che vide Aristofane, uno smagrito cane randagio è il medesimo che curò la ferita di san Rocco, un leone che passeggia minaccioso dietro le sbarre di uno zoo sgangherato è lo stesso che entrava nell’arena del Colosseo durante i giochi romani, i pesci che vediamo scorrazzare nelle acque di un fiume sono identici a quelli riportati sul mosaico bizantino nella chiesa di san Giorgio a Madaba, che fecero dietrofront quando assaggiarono le acque salate del Mar Morto. Oggi gli animali hanno smesso di rappresentare l’eternità, poiché li abbiamo esageratamente antropomorfizzati, abbiamo traslato sulle bestie caratteristiche umane che mal si addicono alla natura ferina: affetto reciproco, capacità di discernimento, sbalzi d’umore e via dicendo. L’etologia, che intende studiare il comportamento degli animali, prende la bestia come oggetto di studio, non come individuo da psicanalizzare. L’animale umanizzato è una prerogativa del nostro tempo amorale, ascientifico, antiumano. La compassione per gli animali viene confusa coll’innalzamento dell’essere umano e un maggior grado di civilizzazione; al contrario, più essa cresce, più diminuisce quella per gli uomini nostri fratelli. Dove regna l’esaltazione della pietà animale, lì serpeggia la morte dell’eternità.

Jorge Luis Borges (1997), Storia dell’eternità, trad. di G. Guadalupi, Adelphi, Milano, pp. 135

venerdì 9 ottobre 2015

"Aurora"


Vorrei dire la mia a proposito della tradizione, intesa come la summa degli usi e costumi rilevanti che impongono un obbligo, il cui mancato rispetto provoca scandalo o perlomeno mugugni presso la maggioranza. È chiaro che una tradizione va definita cronologicamente, geograficamente, etnicamente e culturalmente: penso dunque all’Italia e agli italiani di oggi, ma soprattutto penso all’uso - o moda - di dare un nome alla prole. Mi spiego meglio. È risaputo che in Italia, soprattutto al Sud, vige la tradizione di dare il nome del nonno paterno al primo maschio che viene al mondo, una tradizione che oggi si sta perdendo a favore di una maggiore libertà dei genitori sul nome da dare ai propri figli. Ma se la tradizione dimostra di essere inefficiente su questo punto - poiché il nome del nonno potrebbe risultar sgradito ai genitori od anche al figlio stesso -, un nome scelto in piena libertà dai genitori corre lo stesso rischio, almeno nei confronti del bimbo una volta che sarà cresciuto. Quindi da questo punto di vista non c’è stato alcun miglioramento sull’aver tradito la tradizione. La moda ha certamente liberato i genitori dall’obbligo di nomare il primo figlio in un certo modo, ma li ha anche caricati della responsabilità di sceglierne uno migliore, perlomeno un nome di cui il figlio non dovrà vergognarsi in futuro. Qui volevo portarvi. Al fatto che la tradizione - da molti genitori modernisti etichettata come vecchia, sorpassata, ingiusta, bigotta - in realtà ci scarica dalle responsabilità. Quando Friedrich Nietzsche (1844-1900), in "Aurora" (1881), afferma che «la tradizione [è] un’autorità superiore, alla quale si presta obbedienza non perché comanda quel che ci è utile, ma soltanto perché ce lo comanda», non sta parlando a noi maggioranza, ma ai suoi simili, ai sovrauomini, o a chi è in procinto di esserlo. La nostra passività alla tradizione, dunque, è obbligatoria, e deve fungere da tuta mimetica, proprio come la mimicry delle scienze naturali. Nietzsche aggiunge più tardi che «si esige l’autosuperamento non a causa delle utili conseguenze che esso ha per l’individuo, bensì affinché il costume, la tradizione, appaiano imperanti, nonostante ogni opposta velleità e utilità individuali: il singolo deve sacrificarsi, questo esige l’eticità del costume». Se è vero che il filosofo tedesco rifiuta in blocco la tradizione, auspicandone il suo superamento, è altrettanto vero che il suo tentativo risulta sterile allorché si riferisce alla maggioranza degli uomini. Solo l’élite può permettersi questo salto nel vuoto nell’assenza di tradizione, di costume, di storia. La società odierna, che in questa assenza annaspa, ha perduto dunque il rispetto della tradizione - proprio quella famosa perdita di valori di cui tanto si parla a vanvera. Ritornando alla tradizione sul nome da dare alla prole, appare ora con maggior chiarezza come il mancato rispetto della tradizione implichi un maggior carico di responsabilità sui genitori, incapaci di portarla poiché appartenenti alla maggioranza. Ci si limiti quindi a rispettare l’eticità del costume, dando al primo figlio il nome del nonno, e ai successivi, magari, i nomi di santi cristiani, preferibilmente i santi celebrati nel giorno della nascita. La tradizione è un aiuto incommensurabile qui come in tutte le sfere del vivere quotidiano. Chi si considera moderno non comprenderà l’importanza della questione: poco male.

Friedrich Nietzsche (1978), Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano, pp. 283

martedì 6 ottobre 2015

"Tragico tascabile"


Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare a Bolzano del monumento alla Vittoria, un complesso trionfale edificato dal regime fascista tra il 1926 e il 1928 per glorificare la vittoria italiana sugli austriaci nella Grande Guerra. Progettato dall’insigne razionalista Marcello Piacentini (1881-1960), il complesso marmoreo sorge al posto del precedente monumento ai Kaiserjäger (costruito dagli austriaci nel 1917) proprio per rivendicare l’italianità (sostanzialmente artificiale ma formalmente piena) del luogo. In Alto Adige la discussione vede tre correnti di pensiero: alcuni vogliono lasciarlo intatto perché architettonicamente valido ed esteticamente bello, altri vogliono abbatterlo perché ricorda l’italianizzazione coatta che il regime mussoliniano impose agli altoatesini, infine altri ancora consigliano di bonificarlo, ovvero di limitarsi a rimuovere quelle parti che più offendono la cultura e la tradizione dei bolzanesi. Nello specifico, la frase incriminata è: «Hic patriæ fines. Sista signa. Hinc ceteros excoluimus lingua legibus artibus» (Qui sono i confini della patria. Pianta le insegne. Da qui educammo tutti gli altri alla lingua, al diritto e alle arti). Trovo infantile la bagarre politica venutasi a creare attorno a questo monumento che, seppur offende in qualche modo il carattere sudtirolese di questi italiani di confine, è stata sinora portata avanti da personalità di scarso spessore culturale e artistico. Un’opera d’arte, seppur di epoca totalitaria, non merita alcuna demolizione né tantomeno un restauro migliorativo che ne rinneghi il senso intimo. Nel 2015 la società italiana è abbastanza matura per apprezzare il monumento alla Vittoria di Bolzano per quello che è, un meraviglioso ma effimero altare alla potenza fascista da contestualizzare in un periodo di regimi totalitari, dei quali la nostra Costituzione non sente alcuna nostalgia. Nel corso della storia, tanti sono stati gli smantellamenti, gli abbattimenti e le razzie a monumenti di epoche precedenti ritenuti offensivi, fuori corso, addirittura sacrileghi. Pensiamo al Colosseo, depredato dei suoi rivestimenti marmorei dai papi perché ritenuto simbolo del paganesimo romano e del martirio cristiano, e arrivato a noi in uno stato di assoluta indecenza estetica. Ma se non ci fosse stata un’attenzione al bello universale Roma non avrebbe invece goduto del Pantheon, nato per venerare gli dèi e poi consacrato a chiesa cristiana, fino a diventare mausoleo dei Savoia. Ma anche nel caso del Pantheon, quando si studiano i restauri a cui fu sottoposto per purgarlo del politeismo dei gentili, viene naturale chiedersi se anche l’epoca odierna non sia innegabilmente destinata al tramonto per darne alla luce una diversa. Nei tanti e illuminanti articoletti contenuti in "Tragico tascabile" di Guido Ceronetti (1927) ve n’è uno riguardante proprio il Siegesdenkmal, nel quale l’intellettuale torinese auspica che lo Stato italiano abbatta al più presto l’Arco di Piacentini. Adoro Ceronetti ma questa sua presa di posizione - di cui comprendo appieno il senso poiché non può esservi alcuna vittoria dove c’è sofferenza e tragedia - risulta totalmente fuori luogo, specialmente in un periodo in cui dei figli di puttana senza Dio né patria (l’ISIS) fanno letteralmente saltare in aria opere architettoniche preziosissime per la storia di noi tutti (Palmira). Evitiamo allora il patetismo di considerarci i definitivi abitanti di questi luoghi, cominciando col lasciare in pace il monumento alla Vittoria di Bolzano.

Guido Ceronetti (2015), Tragico tascabile, Adelphi, Milano, pp. 215

martedì 29 settembre 2015

"Dizionario dei luoghi comuni"


Le società occidentali, dato il grado di medializzazione, son diventate oggi terra di nessuno. Le opinioni cambiano, nascono nuove idee, vengono modernizzate vecchie recensioni, eppure sembra che a regnare sovrano sia esclusivamente il caos. Alla base di questa nuova Babilonia c’è internet, forse la più importante invenzione dell’umanità. Nell’era del web è lecito dire tutto e il contrario di tutto, tanto che sarebbe giusto parlare di un’epoca dei revisionismi. La titanica quantità di informazioni non ha migliorato le masse, non ha creato la tanto agognata specializzazione, non ha favorito alcuna democrazia intellettuale: semmai ha provocato un’illegittima autoreferenzialità. Nonostante internet venga esaltato da più parti per il suo ruolo nella Primavera Araba o nell’affaire Wikileaks, per l’integrazione di sistemi elettronici di cui è stata artefice e per la creazione di reti sociali come Facebook e Twitter, in realtà questo potentissimo mezzo di persuasione viene utilizzato come uno strumento di imposizione personale, familiare, locale, insomma quanto di più lontano dall’obiettivo sperato. Internet ha generato nuovi campanilismi, nuovi pregiudizi, nuovi odi e soprattutto ha accelerato la già pericolosa perdita di memoria dei popoli. Questo perseverare nella confusione di ruoli provocherà danni di lungo periodo oggi difficilmente quantificabili. Ed anche questo mio sproloquio non è che un granello di sabbia nell’odierno deserto ideologico. Ma a differenza degli altri blogger e di tutti i naviganti virtuali, sono assolutamente consapevole della mia inutilità. E della mia inadeguatezza. Totalmente diverso l’esito di Gustave Flaubert (1821-1880) - non poteva essere altrimenti! - che nell’incompleto "Dizionario dei luoghi comuni" (1881) racchiuse la stupidità umana del suo tempo, dimostrando con sprezzante ironia quanto confuso, mediocre e inappropriato fosse il chiacchiericcio d’ogni tempo e d’ogni dove. La sola avvertenza che mi permetto di avanzare all’ignaro lettore è di tralasciate la prefazione di Juan Rodolfo Wilcock (1919-1978): è un valente scrittore ma qui riesce a polemizzare e politicizzare anche il concetto stesso di luogo comune, in una inutile ortodossia del paradosso.

Gustave Flaubert (1980), Dizionario dei luoghi comuni - Album della Marchesa - Catalogo delle idee chic, trad. di J.R. Wilcock, Adelphi, Milano, pp. 132

giovedì 24 settembre 2015

"Anatomia dell'irrequietezza" e "Ritorno in Patagonia"


«Les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent pour partir» dice Charles Baudelaire (1821-1867) ne "Le voyage", poesia che chiude "I fiori del male" (1857). Il viaggio, più che uno spostamento fisico, è una delle metafore più antiche e profonde, e in qualsiasi cultura noi siamo la troviamo riproposta in testi sacri e sacrileghi. Bruce Chatwin (1940-1989) fu un viaggiatore lato sensu, poiché alla missione esplorativa accostava sempre un viaggio interiore, fatto di riferimenti e aneddoti letterari. L’istintività e l’impazienza sono i tratti peculiari della sua "Anatomia dell’irrequietezza", pubblicato nel 1996 sia in Inghilterra che in Italia, un libro in cui lo scrittore viaggiatore britannico riversa molte delle sue traversie e traversate ai quattro angoli del globo; dentro ci sono luoghi, persone, avventure che Chatwin ha visitato, conosciuto, vissuto. Da questo mare magnum emerge poi la tanto amata Patagonia, madrepatria di una razza leggendaria ormai estintasi: i patagoni. Proprio di questi giganti tribali, assieme a Paul Theroux (1941), Bruce Chatwin scriverà le sue impressioni nel "Ritorno in Patagonia" (1985), in stringate analisi storico-letterarie che, da Pigafetta a Darwin, passando per Melville, lasceranno a bocca aperta quel lettore che adora non tanto il viaggio geografico, quanto quello intellettuale.

Bruce Chatwin (1996), Anatomia dell’irrequietezza, trad. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano, pp. 223
Bruce Chatwin & Paul Theroux (1991), Ritorno in Patagonia, trad. di C. Morena, Adelphi, Milano, pp. 77


lunedì 21 settembre 2015

"Il rovescio della Conquista" e "La donna che fuggì a cavallo"


I conquistadores, di danni, ne hanno fatti parecchi nel cosiddetto Nuovo Mondo, sterminando, schiavizzando o derubando le popolazioni native. Se l’uomo bianco non s’è posto molti problemi a tali misfatti è perché, contestualizzando le scoperte geografiche del XV e XVI secolo, i nativi, dal giorno in cui Cristoforo Colombo mise piede alle Bahamas, dovevano presentarsi piuttosto arretrati in ogni ambito antropologico. Una qualche riscoperta della genuinità dei loro usi, costumi e religioni venne poi effettuata, a mo’ di indulgenza plenaria, dal mito dell’esotismo nel XVIII secolo. Lasciando da parte il cinismo, che tanto ci piace, va detto che, al contrario di buona parte della storiografia internazionale relativa alla conquista del Nuovo Mondo, il libro del messicano Miguel León-Portilla (1926), "Il rovescio della Conquista" (1959), si pone come uno strumento validissimo e importante per capire la conquista dal punto di vista dei vinti: dalle testimonianze azteche, maya e inca traiamo un’idea, scientificamente valida, di come l’indigeno abbia assistito alla distruzione del proprio mondo, in un atteggiamento prima giubilante e poi vendicativo. È lo stesso Atahualpa (1497-1533), glorioso re inca, a impressionarmi più d’ognuno: mentre lui si dilettava in guerre civili e massacri per la stabilizzazione del proprio regno, gli spagnoli, approdati in Perù, venivano accolti come esseri soprannaturali, proprio perché nei miti religiosi di quelle genti Dio sarebbe giunto dagli oceani. Tra schermaglie, battaglie e giochi di potere, finì che il fiero sovrano Atahualpa fu processato e giustiziato dai conquistadores, tanto che da lì in poi, per le popolazioni che abitavano il continente sudamericano prima e nordamericano poi, fu tutta una discesa negli inferi. Il succitato spirito vendicativo dei nativi è ben presente in un altro libro, totalmente diverso da quello di León-Portilla. "La donna che fuggì a cavallo" (1928) di D.H. Lawrence (1885-1930) è la storia di una moglie che, stanca del marito e dell’occidente, raggiunge la tribù dei Chilchui per donarsi alle loro costumanze e ai loro dèi. Che fine potrà fare una donna europea tra aborigeni che imputano alla razza bianca problemi astronomici, religiosi e politici? Facile intuirlo.

Miguel León-Portilla (1974), Il rovescio della Conquista. Testimonianze azteche, maya e inca, trad. di G. Segre Giorgi & G. Lapasini, Adelphi, Milano, pp. 186
D.H. Lawrence (2001), La donna che fuggì a cavallo, trad. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano, pp. 83


mercoledì 16 settembre 2015

"Il Regno"


È un dato di fatto che gli islamisti oramai uccidono anche in Europa. Si organizzano, fanno proseliti e attentano alle libertà occidentali. Al di là della perdita di vite e del modo in cui vengono strappate, quello che più infastidisce, dopo i massacri del Charlie Hebdo, è l’assenza di intellettuali, in questa radura spirituale che è diventata l’Europa, in grado di fornire letture appropriate dell’epoca che stiamo vivendo. Oggi, grazie alla rinnovata forza dei mezzi di comunicazione, siamo tutti solidali con le vittime e severi con i carnefici, ma non andiamo oltre la presa di coscienza, o di posizione. Manca totalmente in Francia, come in Germania, in Italia e nel Regno Unito, una classe di filosofi, sociologi e statisti capace di spiegarci questa deriva 2.0 che ha portato l’Islam più radicale allo scontro con l’occidente. E di spiegare perché ci stia riuscendo tanto bene. Sostituire l’analisi sociologica con la vana pietà, la speculazione filosofica con lo shock da salotto, è un errore in cui cadiamo tutti. Ma è un errore a cui devono sottrarsi gli intellettuali, sui quali grava la responsabilità di prevedere il corso degli eventi e di consigliare e fornire soluzioni alla classe dirigente. L’assenza di questi ha fatto sì che il problema dell’islamismo in Europa si tramutasse in sciovinismo. I partiti xenofobi abbondano in tutto il continente e i pochi cervelli rimasti parteggiano per due fazioni opposte: da un lato si comincia ad entrare nell’ottica di una certa rigidità verso l’immigrazione, dall’altro si continua a vagheggiare una sterile autocritica su come le politiche d’integrazione si siano rivelate inefficaci. Non essendo un intellettuale, posso azzardare un’ipotesi su tutte, che parte da un’analisi esterno/interno. Dal punto di vista esterno, ovvero per quanto riguarda l’influenza esercitata da culture diverse dalla nostra, individuo nel fenomeno della ibridazione - con speciale riferimento ai paesi del cosiddetto terzo mondo - la principale causa di quello stravolgimento di valori che sta portando l’occidente a rivedere le sue conquiste in fatto di libertà e diritti. I paesi musulmani, giunti con estremo ritardo nella modernità, hanno dovuto frettolosamente adeguarsi ai sistemi imperanti (nuove tecnologie, globalizzazione, economia di mercato ecc.) col risultato di aver digerito male l’intero processo. Un tempo si sarebbe parlato di riflusso, oggi si può chiaramente parlare di indigestione. Dal lato eminentemente interno, le stragi di Parigi mostrano un allarmante problema di integrazione non degli immigrati, bensì delle seconde e terze generazioni di immigrati, ovvero di cittadini cresciuti e pasciuti all’interno del nuovo tessuto sociale. In alcuni casi, i figli, anziché emanciparsi definitivamente in favore delle libertà occidentali, son tornati alle tradizioni della cultura genitrice, radicalizzando quegli aspetti che maggiormente creano un’identità altra rispetto alla società in cui vivono. E in un mondo atomizzato, in balia delle più disparate ideologie, questa radicalizzazione può facilmente venir assorbita, nel caso particolare, dalla follia jihadista. L’unico illuminante tentativo che ho letto con gusto è stato quello messo in piedi da Emmanuel Carrère (1957) ne "Il Regno", ma forse anche la sua analisi va a parare nell’alibi del nichilismo, travisando il senso di quella rivoluzione morale, poiché parte dall’assunto secondo cui la nostra sia già una civiltà pienamente nichilista. Son passati più di 2.000 anni dall’ultimo dio. È giunta l’ora di crearne uno nuovo.

Emmanuel Carrère (2015), Il Regno, trad. di F. Bergamasco, Adelphi, Milano, pp. 428

lunedì 14 settembre 2015

"Vita di Enrico Ibsen"


Alberto Savinio (1891-1952) immagina il femminismo come un traforo del Sempione, ovvero come una montagna che venga scavata da versanti opposti da due correnti uguali e convergenti - le donne femministe e gli uomini femministi - e che questi infine si incontrino a metà strada, nel centro della montagna stessa. Nel 1943 il femminismo saviniano non è quello sessantottino e post-sessantottino, non è la mera ribellione del corpo donnesco a nuove e più aperte abitudini sessuali, non proviene dagli ambienti omosessuali e non c’entra assolutamente nulla con le rivendicazioni sessuali di qualche donna borderline. Alberto Savinio sostiene che il femminismo è un sentimento che appartiene all’uomo - nell’accezione del Mensch - poiché da una parte il maschio deve ridurre la propria quota di tirannia e di vassallaggio nei confronti della donna, e dall’altra la femmina deve rompere quello schiavismo che la relega a semplice soddisfacimento materiale dell’uomo. Spesso mi accusano di essere maschilista quando biasimo la donna facile, l’incontro di una sera, la prestazione sessuale svogliata e superficiale; chi non mi ritiene maschilista, al contrario, mi etichetta come un patetico romantico. In realtà nutro un gran rispetto per la Donna, tanto da non sopportare di vederla all’attuale stato animalesco. In quello saviniano ho ritrovato dunque il mio femminismo, ovvero distruggere il maschio che è in me, senza per questo intaccare la virilità. La domanda che sorge spontanea è: ma cosa c’entra il femminismo con la "Vita di Enrico Ibsen"? Solo leggendo il libro, potrete capire le iperboli mentali di Savinio.

Alberto Savinio (1979), Vita di Enrico Ibsen, Adelphi, Milano, pp. 90

giovedì 10 settembre 2015

"Storia di san Cipriano" e "I detti di Rābi'a"


L’ἄσκησις (askesis) rappresenta l’esercizio autarchico, l’addestramento disciplinato, nel nostro caso riferito alla sfera spirituale e/o religiosa. Nel catalogo adelphiano troviamo due figure di asceti, una cristiana, l’altra islamica: Tascio Cecilio Cipriano (210-258), vescovo cartaginese convertitosi al cristanesimo dopo aver profondamente operato nel mondo pagano, e Rābi’a al-‘Adawiyya (713-801), liberta musulmana considerata una delle più importanti figure del sufismo. Entrambi questi santi arabi si son lasciati dietro - com’era lecito attendersi - uno sciame di leggende, superstizioni e raccomandazioni. Cipriano ci viene raccontato dall’imperatrice Eudocia Augusta (401-460) come un pagano esaltato, esperto in pratiche diaboliche e per questo vicinissimo a Satana, la cui magica conversione avverrà per mano di una santa donna, Giustina. Potete ben capire come una leggenda costruita sugli elementi del diavolo come peccato, del pentimento come ravvedimento e della fede per mezzo di una donna, abbia provocato una vasta eco nel mondo barbaro: ed è proprio così che ci appare il misticismo di Cipriano. D’altro canto abbiamo Rābi’a, i cui detti sono stati tradotti per la prima volta in italiano da Caterina Valdrè e comprendono le fonti più disparate (persino vaticane). Nell’ascesi di questa santa sufi vi sono sorprendenti elementi di comunanza col cristianesimo, anche se un’affermazione del genere rischia di passare, alle orecchie degli islamisti (studiosi di islam), per una vera e propria bestemmia. Ma il sufismo, che Alessandro Bausani (1921-1988) riteneva colpevole di aver causato il declino dell’islam, rappresenta il lato più bello della religione musulmana, in quanto ne è la sua emanazione filosofica. Rābi’a ama Dio e al contempo Ne è terrorizzata: nella sua vita non c’è nient’altro all’infuori di Lui tanto che la morte sarà l'agognato ritorno presso il Signore. Al pari, Cipriano vivrà la sua fede cristiana con altrettanta enfasi, tanto da portarlo al martirio, in un mondo talmente pagano dove il solo nominare Dio equivaleva ad un atto di estremo, sfavillante coraggio.

Eudocia Augusta (2006), Storia di san Cipriano, a cura di C. Bevegni, Adelphi, Milano, pp. 207
Caterina Valdrè (a cura di) (1979), I detti di Rābi’a, Adelphi, Milano, pp. 102


martedì 8 settembre 2015

"Domicilio sconosciuto" e "Beduina"


La giovinezza scapestrata è spesso il sintomo più evidente di una fulgida intelligenza. Bruciare le tappe, come si suol dire, non è sempre un atto semplicemente provocatorio; il più delle volte rappresenta un’insofferenza alla propria età anagrafica e al proprio corpo, come se ci si sentisse davvero maturi - semplicemente più vecchi - per affrontare tutte le esperienze della vita senza restarne particolarmente traviati. È questo il caso di due giovani scrittrici, la serba Natasha Radojčić (1966) e la statunitense Alicia Erian (1967), praticamente coetanee, che raccontano le storie, decisamente autobiografiche, di due adolescenti ribelli e curiose in emisferi geografici molto diversi, cittadine del mondo perché nate in famiglie multirazziali o cosmopolite. Come dicevamo in apertura, Saša e Jasira, le due protagoniste, bruciano letteralmente le tappe della propria adolescenza: sono ragazze che crescono e si educano da sé, che imparano a relazionarsi col mondo in totale autonomia, che sperperano gli anni dell’innocenza e dell’ingenuità con orgoglio e un pizzico di narcisismo. "Domiclio sconosciuto" è ambientato tra la Jugoslavia titina e post-titina, la Grecia, New York e Cuba; "Beduina" tutto in America, tra la città natale della Erian, Syracuse, e Houston, baricentro della NASA. Sono entrambe delle narrazioni filmiche, sceneggiature bell’e pronte, storie complete nei dettagli, nei posti e nelle caratterizzazioni, le trame apertissime a qualsiasi compromesso di regia. Le due scrittrici hanno uno stile impressionante per la facilità con cui si lasciano leggere, senza ermetismi o astruserie letterarie. La Radojčić è leggermente più brutale nell’esposizione, la Erian decisamente più delicata; ma in conclusione ci permettono entrambe un’appassionante sbirciata nell’universo femminile, pre- e postadolescenziale, tra droghe pesanti e sesso illegale, il tutto senza tralasciare gli scenari politici e geopolitici del nostro passato recente: Fidel Castro, George H.W. Bush, Papandreu, la guerra del Golfo, Saddam Hussein, le Guerre jugoslave, Tito. Insomma, un mondo che freme, in totale ebollizione, proprio come i giovani corpi di Saša e Jasira.

Natasha Radojčić (2004), Domicilio sconosciuto, trad. di E. Dal Pra, Adelphi, Milano, pp. 185
Alicia Erian (2005), Beduina, trad. di G. Oneto, Adelphi, Milano, pp. 349


venerdì 4 settembre 2015

"Dal libro dei pensieri"


L’Italia è un Paese degradato, degenerato, deteriorato, forse deceduto. I parametri eziologici della sua decadenza sono da rinvenire nella lentissima ma perniciosa perdita di produzione intellettuale che ha avuto inizio nell’immediato dopoguerra per mano del consumismo e che si è consumata in quest’ultimo quarto di secolo coll’affermarsi sempre meno latente della borghesia. Quella che, rubando qualcosa a Indro Montanelli (1909-2001), definisco mediocrità borghese è infatti alla radice della questione intellettuale, questione aristocratica per definizione se contempla le problematiche inerenti l’attribuzione di significati all’esistenza umana. Un popolo che sostituisce la ricerca della (in)felicità con la rincorsa alla ricchezza materiale va veloce verso il tramonto. La richiesta di pari opportunità da parte delle masse - che a livello microscopico sembra essere un sacrosanto diritto - è in realtà una grave tragedia, tanto che la società civile, ostaggio di questo istituto giuridico, è via via diventata una terra di nessuno. La possibilità per tutti di accedere al grado più alto di istruzione, il sogno di poter rincorrere liberamente le proprie aspirazioni, il secco rifiuto delle condizioni di partenza considerate troppo limitanti hanno concorso all’odierna situazione di disfatta culturale. Se poi utilizziamo la politica come metro di giudizio per le nostre affermazioni vedremo che la teoria aristocratica sulla mediocrità borghese come causa della decadenza dimostra tutta la sua infallibile evidenza. Dal momento che ogni cittadino può sostanzialmente rappresentare le istituzioni, è stata data facoltà formale a chiunque - senza alcun filtro culturale, morale o etico - di partecipare attivamente al governo dello stato. Ma uno stato non può essere rappresentato da chiunque, poiché altrimenti sarebbe uno stato qualunque: un paese all’altezza del suo passato necessita invece degli elementi migliori partoriti dalla sua società civile. Col principio egualitario si è quindi compromessa la selezione di uomini di stato a vantaggio dell’uomo qualunque. Così è pure in tutti gli altri rami del nostro vivere in società. I grandi pensatori sono perlopiù aristocratici in quanto esprimono un’idea che li eleva dal sentire generale, un’idea che non conosce tempo, che anzi supera la contemporaneità per collocarsi nell’indefinitezza dell’eternità. È su questi pensieri che vado con la mente a Benedetto Croce (1866-1952), forse il più grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, per via della trasversalità dei suoi interessi, un uomo in grado di discettare d’amore, politica, d’arte o religione. Poi guardo l’Italia di oggi, che da quando ha smesso di perpetuarsi, è tornata ad essere proprio una nazione di uomini qualunque. Poiché nulla muore nel posto sbagliato, speriamo che prima o poi ogni cosa torni al suo posto.

Benedetto Croce (2002), Dal libro dei pensieri, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano, pp. 225