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martedì 8 settembre 2015

"Domicilio sconosciuto" e "Beduina"


La giovinezza scapestrata è spesso il sintomo più evidente di una fulgida intelligenza. Bruciare le tappe, come si suol dire, non è sempre un atto semplicemente provocatorio; il più delle volte rappresenta un’insofferenza alla propria età anagrafica e al proprio corpo, come se ci si sentisse davvero maturi - semplicemente più vecchi - per affrontare tutte le esperienze della vita senza restarne particolarmente traviati. È questo il caso di due giovani scrittrici, la serba Natasha Radojčić (1966) e la statunitense Alicia Erian (1967), praticamente coetanee, che raccontano le storie, decisamente autobiografiche, di due adolescenti ribelli e curiose in emisferi geografici molto diversi, cittadine del mondo perché nate in famiglie multirazziali o cosmopolite. Come dicevamo in apertura, Saša e Jasira, le due protagoniste, bruciano letteralmente le tappe della propria adolescenza: sono ragazze che crescono e si educano da sé, che imparano a relazionarsi col mondo in totale autonomia, che sperperano gli anni dell’innocenza e dell’ingenuità con orgoglio e un pizzico di narcisismo. "Domiclio sconosciuto" è ambientato tra la Jugoslavia titina e post-titina, la Grecia, New York e Cuba; "Beduina" tutto in America, tra la città natale della Erian, Syracuse, e Houston, baricentro della NASA. Sono entrambe delle narrazioni filmiche, sceneggiature bell’e pronte, storie complete nei dettagli, nei posti e nelle caratterizzazioni, le trame apertissime a qualsiasi compromesso di regia. Le due scrittrici hanno uno stile impressionante per la facilità con cui si lasciano leggere, senza ermetismi o astruserie letterarie. La Radojčić è leggermente più brutale nell’esposizione, la Erian decisamente più delicata; ma in conclusione ci permettono entrambe un’appassionante sbirciata nell’universo femminile, pre- e postadolescenziale, tra droghe pesanti e sesso illegale, il tutto senza tralasciare gli scenari politici e geopolitici del nostro passato recente: Fidel Castro, George H.W. Bush, Papandreu, la guerra del Golfo, Saddam Hussein, le Guerre jugoslave, Tito. Insomma, un mondo che freme, in totale ebollizione, proprio come i giovani corpi di Saša e Jasira.

Natasha Radojčić (2004), Domicilio sconosciuto, trad. di E. Dal Pra, Adelphi, Milano, pp. 185
Alicia Erian (2005), Beduina, trad. di G. Oneto, Adelphi, Milano, pp. 349


lunedì 18 maggio 2015

"Il grano in erba"


«Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c'è certezza» cantava Lorenzo il Magnifico ne "Il trionfo di Bacco e Arianna" (1490). La fine improvvisa dell'adolescenza e il conseguente traumatico passaggio all'età adulta, sono temi che hanno attirato l'attenzione di frotte di autori, il più significativo dei quali mi è sempre parso Alberto Moravia (1907-1990) col suo "Agostino" (1944), dove il protagonista diventava uomo in seguito alle avventure amorose della madre. Vent'anni prima del romanzo di Moravia apparve a puntate, sul quotidiano Le Matin, un racconto della disinibita Colette (1873-1954), la cui pubblicazione fu presto interrotta perché avrebbe provocato sdegno e scandalo presso l'opinione pubblica francofona. Vi si narra la storia di due ragazzi, Vinca e Philippe, amici da sempre, che trascorrono le vacanze estive assieme alle rispettive famiglie sulla costa bretone. Quella che agli occhi dei genitori è un'amicizia fraterna, per i nostri due giovani protagonisti è una fattispecie dell'amore, serissima e concreta, pura e razionale. L'elemento di disturbo, che scaraventerà Phil nella maggiore età, è invece rappresentato dalla signora Dalleray, maestra di seduzione e artigianato sessuale. Ma nella relazione puberale/adolescenziale dei due ragazzi è già instillato tanto il germe della gelosia quanto quello della complicità, del contrasto e della competitività, nonché della fedeltà assoluta. La relazione con la donna matura porterà Vinca e Philippe a prendere maggior coscienza del proprio amore, certi ora di poter cominciare davvero una vita insieme. Ne "Il grano in erba" (1923) Colette si sottrae alla vista del lettore, lasciando tutto lo spazio narrativo nelle mani dei due giovani amanti, per i quali gli adulti non sono che ombre, torve e tutte uguali. Implicitamente l'autrice si autoinclude proprio in questo universo di ombre, quasi fosse un penoso interferitore, lasciando soltanto trasparire la malinconia per la fine della sua adolescenza, l'età più bella, quella che non torna indietro, e dopo la quale vivere diventa irrimediabilmente un vuoto a perdere.

Colette (1991), Il grano in erba, trad. di G. Luzzani, Adelphi, Milano, pp. 148