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giovedì 15 ottobre 2015

"Storia dell'eternità"


Nel primo saggio, eponimo, contenuto nella "Storia dell’eternità" (1936) di Jorge Luis Borges (1899-1986) mi è balzata all’occhio un’interessantissima quanto lucida impressione dell’autore che, intento a tracciare i confini del concetto di eternità, riporta l’esempio dell’uccello. «L’abitudine di radunarsi in stormi, le piccole dimensioni, l’identità dell’aspetto, l’assidua presenza ai due crepuscoli, quello dell’inizio e quello della fine del giorno, la circostanza che frequentino più il nostro udito che la nostra vista: tutto questo ci induce ad ammettere il primato della specie e la quasi perfetta nullità degli individui», come a dire che gli animali sono segnali d’eterno. Gli uccelli che vediamo librarsi nel cielo sono gli stessi che vide Aristofane, uno smagrito cane randagio è il medesimo che curò la ferita di san Rocco, un leone che passeggia minaccioso dietro le sbarre di uno zoo sgangherato è lo stesso che entrava nell’arena del Colosseo durante i giochi romani, i pesci che vediamo scorrazzare nelle acque di un fiume sono identici a quelli riportati sul mosaico bizantino nella chiesa di san Giorgio a Madaba, che fecero dietrofront quando assaggiarono le acque salate del Mar Morto. Oggi gli animali hanno smesso di rappresentare l’eternità, poiché li abbiamo esageratamente antropomorfizzati, abbiamo traslato sulle bestie caratteristiche umane che mal si addicono alla natura ferina: affetto reciproco, capacità di discernimento, sbalzi d’umore e via dicendo. L’etologia, che intende studiare il comportamento degli animali, prende la bestia come oggetto di studio, non come individuo da psicanalizzare. L’animale umanizzato è una prerogativa del nostro tempo amorale, ascientifico, antiumano. La compassione per gli animali viene confusa coll’innalzamento dell’essere umano e un maggior grado di civilizzazione; al contrario, più essa cresce, più diminuisce quella per gli uomini nostri fratelli. Dove regna l’esaltazione della pietà animale, lì serpeggia la morte dell’eternità.

Jorge Luis Borges (1997), Storia dell’eternità, trad. di G. Guadalupi, Adelphi, Milano, pp. 135

lunedì 11 maggio 2015

"Simposio"


Nel "Simposio", scritto da Platone nel IV secolo a.C., il sapiente Aristofane afferma che nell’età primitiva i generi dell’umanità erano tre: il maschio, la femmina e l’androgino. Egli immaginava gli esseri umani come figure circolari dotate di quaranta dita, quattro braccia, quattro gambe, due volti, due genitali: praticamente ognuno di questi cerchi umanoidi era composto da due esseri umani complementari. Ma essendo Zeus impaurito da tanta perfezione, decise di tagliarli in due parti uguali, così da renderli più deboli, impedendo loro di attentare in futuro al potere degli dei. Ecco perché - prosegue Aristofane - ciascuna metà, bramando la metà perduta che le era propria, cerca infine di raggiungerla. Le donne formate dalla sezione di una donna non si curano dell’attenzione maschile ma si rivolgono verso altre donne, dando vita alle tribadi (le odierne lesbiche). Tutti quelli formati dalla sezione di un maschio inseguono invece i maschi, senza prestare attenzione ai richiami femminili, dando vita a quelli che oggi chiamiamo gay, e che un tempo invece venivano reputati uomini amanti del bello, perfetti per l’arte politica. Infine, tra gli uomini, tutti quelli che sono una parte tagliata dal genere congiunto, l’androgino, si rivolgono con desiderio all’altro sesso, la donna. Le prime due unioni sono fini a se stesse, ovvero alla sazietà della congiunzione amorosa, tanto che Aristofane afferma a chiare lettere che «non si interessano del matrimonio e della procreazione dei figli, per loro natura, ma vi sono costretti dalla legge; a loro basta, piuttosto, passare la vita assieme, senza nozze». La terza unione è invece quella che genera e produce stirpe ed è chiaro che quella che oggi viene stupidamente definita eterosessualità andrebbe ricercata all’interno di questo terzo genere, l’androgino, che ha dato vita, durante l’era cristiana, all’istituto del matrimonio moderno. Sono oramai diversi anni che in Italia si dibatte sull’opportunità di istituire una sorta di matrimonio omosessuale, con la possibilità per le coppie gay di adottare, condividere e crescere figli. Non è mio interesse dare un giudizio di valore su questo tema, in quanto sono dell’idea che un istituto è valido fin tanto che la società lo ritiene utile, senza che lo stato, ammantandosi di intenti etici, interferisca nella vita privata dei suoi cittadini. Ciò che invece rimprovero agli omosessuali sta proprio nel loro desiderio di normalizzazione. Essi hanno la fortuna di poter vivere al di fuori della cosiddetta società civile, quella organizzata secondo schemi tradizionali e storici di dubbia provenienza, eppure oggi reclamano l’investitura burocratica della propria natura, sminuendone così la preziosa unicità. In altre parole, l’omosessuale sembra oggi stanco della propria alterità, quella diversità che gli permette di definirsi tale. La sua unica ed incrollabile ambizione è rappresentata dall’omologazione al sistema dominante, anche se questo implica il sostanziale rinnegamento di sé. Attraverso l’unione gay, l’omosessuale sconfessa se stesso, rinforzando l’istituto che da sempre è il caposaldo della società maggioritaria in cui vive: il matrimonio. Suvvia, il nostro è chiaramente un discorso di bassa filosofia, che non aspira certo a risolvere la questione, né tantomeno a giudicarla. Ma siamo altresì convinti che Aristofane e Platone siano voci importanti da tenere in gran conto per la costruzione di una valida idea sulla questione omosessuale.

Platone (1979), Simposio, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano, pp. 108