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giovedì 24 settembre 2015

"Anatomia dell'irrequietezza" e "Ritorno in Patagonia"


«Les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent pour partir» dice Charles Baudelaire (1821-1867) ne "Le voyage", poesia che chiude "I fiori del male" (1857). Il viaggio, più che uno spostamento fisico, è una delle metafore più antiche e profonde, e in qualsiasi cultura noi siamo la troviamo riproposta in testi sacri e sacrileghi. Bruce Chatwin (1940-1989) fu un viaggiatore lato sensu, poiché alla missione esplorativa accostava sempre un viaggio interiore, fatto di riferimenti e aneddoti letterari. L’istintività e l’impazienza sono i tratti peculiari della sua "Anatomia dell’irrequietezza", pubblicato nel 1996 sia in Inghilterra che in Italia, un libro in cui lo scrittore viaggiatore britannico riversa molte delle sue traversie e traversate ai quattro angoli del globo; dentro ci sono luoghi, persone, avventure che Chatwin ha visitato, conosciuto, vissuto. Da questo mare magnum emerge poi la tanto amata Patagonia, madrepatria di una razza leggendaria ormai estintasi: i patagoni. Proprio di questi giganti tribali, assieme a Paul Theroux (1941), Bruce Chatwin scriverà le sue impressioni nel "Ritorno in Patagonia" (1985), in stringate analisi storico-letterarie che, da Pigafetta a Darwin, passando per Melville, lasceranno a bocca aperta quel lettore che adora non tanto il viaggio geografico, quanto quello intellettuale.

Bruce Chatwin (1996), Anatomia dell’irrequietezza, trad. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano, pp. 223
Bruce Chatwin & Paul Theroux (1991), Ritorno in Patagonia, trad. di C. Morena, Adelphi, Milano, pp. 77


martedì 20 gennaio 2015

"Pro o contro la bomba atomica"


Quella che può sembrare un’invettiva contro l’utilizzo di armi di distruzione di massa, figlia della paura ai tempi dell’era atomica, diventa, in questa raccolta di scritti di Elsa Morante (1912-1985), una dissertazione sulla definizione e sul ruolo dello scrittore, un ruolo che non si esaurisce nello scrivere romanzi, ma che occupa l’intera esistenza di questi rari esseri umani. La caratteristica pesanteur della Morante, che lei stessa riconosceva come suo massimo difetto, è in realtà uno sguardo approfondito e diafano sulle vicende umane e sulla psicologia, connotato sovrano degli uomini che rende possibile immaginare e concretare, agire e reagire, amare e comprendere. Il titolo della pubblicazione adelphiana proviene dall’omonima conferenza tenuta da Elsa Morante nel 1965 presso il Teatro Carignano di Torino, ma la genuina ossessione che albergava in lei non poteva certo portarla a dibattere semplicemente di bombe H e guerra fredda. La Morante intravedeva nel concetto di disgregazione la peculiarità dei regimi borghesi che avevano trascinato il mondo in quella stupida divisione in blocchi, cui la bomba atomica avrebbe certamente posto un sigillo di morte violenta. All’interno di questa realtà disgregata sono dunque gli aizzatori di disgregazione a farla da padroni, siano essi statisti, burocrati, artisti o scrittori. Ecco perché il nodo centrale del discorso morantiano ricade con frequenza sulla figura del vero scrittore - e lei cita pure i suoi preferiti: Omero, Miguel de Cervantes, Stendhal, Herman Melville, Anton Čechov e Giovanni Verga - ovvero di colui che ha il compito di fornire un’intera immagine dell’universo, attraverso l’arte, che è «avventura cosciente nel mondo reale, immaginazione, esigenza disperata di verità, religione del futuro e della testimonianza, […] necessità di riconoscersi nella bellezza». Sono le armi della cultura e della verità quelle che la Morante invoca nel suo scritto, armi che pochi possiedono veramente, ma sui quali grava una grandissima responsabilità, quella di permettere alle generazioni future la possibilità di sbirciare al di là del muro, di godere di una fetta di libertà in più, di riconoscersi e riconoscere la componente che più conta tra gli esseri umani: l’umanità.

Elsa Morante (1987), Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi, Milano, pp. 143