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lunedì 21 settembre 2015

"Il rovescio della Conquista" e "La donna che fuggì a cavallo"


I conquistadores, di danni, ne hanno fatti parecchi nel cosiddetto Nuovo Mondo, sterminando, schiavizzando o derubando le popolazioni native. Se l’uomo bianco non s’è posto molti problemi a tali misfatti è perché, contestualizzando le scoperte geografiche del XV e XVI secolo, i nativi, dal giorno in cui Cristoforo Colombo mise piede alle Bahamas, dovevano presentarsi piuttosto arretrati in ogni ambito antropologico. Una qualche riscoperta della genuinità dei loro usi, costumi e religioni venne poi effettuata, a mo’ di indulgenza plenaria, dal mito dell’esotismo nel XVIII secolo. Lasciando da parte il cinismo, che tanto ci piace, va detto che, al contrario di buona parte della storiografia internazionale relativa alla conquista del Nuovo Mondo, il libro del messicano Miguel León-Portilla (1926), "Il rovescio della Conquista" (1959), si pone come uno strumento validissimo e importante per capire la conquista dal punto di vista dei vinti: dalle testimonianze azteche, maya e inca traiamo un’idea, scientificamente valida, di come l’indigeno abbia assistito alla distruzione del proprio mondo, in un atteggiamento prima giubilante e poi vendicativo. È lo stesso Atahualpa (1497-1533), glorioso re inca, a impressionarmi più d’ognuno: mentre lui si dilettava in guerre civili e massacri per la stabilizzazione del proprio regno, gli spagnoli, approdati in Perù, venivano accolti come esseri soprannaturali, proprio perché nei miti religiosi di quelle genti Dio sarebbe giunto dagli oceani. Tra schermaglie, battaglie e giochi di potere, finì che il fiero sovrano Atahualpa fu processato e giustiziato dai conquistadores, tanto che da lì in poi, per le popolazioni che abitavano il continente sudamericano prima e nordamericano poi, fu tutta una discesa negli inferi. Il succitato spirito vendicativo dei nativi è ben presente in un altro libro, totalmente diverso da quello di León-Portilla. "La donna che fuggì a cavallo" (1928) di D.H. Lawrence (1885-1930) è la storia di una moglie che, stanca del marito e dell’occidente, raggiunge la tribù dei Chilchui per donarsi alle loro costumanze e ai loro dèi. Che fine potrà fare una donna europea tra aborigeni che imputano alla razza bianca problemi astronomici, religiosi e politici? Facile intuirlo.

Miguel León-Portilla (1974), Il rovescio della Conquista. Testimonianze azteche, maya e inca, trad. di G. Segre Giorgi & G. Lapasini, Adelphi, Milano, pp. 186
D.H. Lawrence (2001), La donna che fuggì a cavallo, trad. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano, pp. 83


lunedì 23 febbraio 2015

"Classici americani"


Nei suoi "Classici americani" (1923), titolo tradotto con vena ancor più sarcastica dall’originale "The symbolic meaning. Studies in classic American literature", l’inglesissimo David Herbert Lawrence (1885-1930) fa a pezzi tutta la letteratura americana del suo tempo, accusandola, al pari di ogni buon intenditore di arti, d’essere superficiale. Tutti i più grandi, da Edgar Allan Poe (1809-1849) a Herman Melville (1819-1891), Fenimore Cooper (1789-1851), Benjamin Franklin (1706-1790), Nathaniel Hawthorne (1804-1864) e Walt Whitman (1819-1892), appaiono qui foschi e mediocri, scribacchini incapaci di approfondire il materiale umano che andavano descrivendo. Tra gli undici saggi critici presentati da Lawrence, è quello su "Due anni a prora" (1840) di Richard Henry Dana (1815-1882) ad avermi condotto in osmosi col pensiero lawrenciano. In questa cronaca nautica v’è un episodio, banale quanto significativo, in cui tre personaggi interagiscono tra loro sulla base di rapporti fisici e ideali, comunque gerarchici, con un quarto, l’autore stesso, che resta a guardare la scena. Sam è un marinaio pigro e piuttosto indolente che, per via della sua sciatteria, viene fustigato dal capitano, nervoso a causa di una tempesta in corso. Dana, guardando la scena sanguinolenta, rabbrividisce, e, impotente, non può far altro che vomitare in mare. Arriva un altro marinaio, John, che si fa paladino di Sam chiedendo a gran voce il perché di quelle frustate. Il capitano, senza pensarci due volte, fustiga anch’egli. Lo spietato D.H. Lawrence ammette che finché il capitano frusta il pelandrone Sam, personaggio fisico, i rapporti di forza sono in equilibrio ed anzi scorre una qualche energia vitale tra i due, tanto che Sam, dopo tanta cieca violenza, si desta dal torpore e sembra in egli riattivarsi l’intelletto. Lawrence sostiene d’altronde che Dana, incapace di muovere un dito di fronte alla brutalità, abbia delegato a John, personaggio ideale, il ruolo dell’eroe o, peggio, del salvatore. Lo sguardo remissivo di Sam nei confronti di John e quello complice di John nei confronti di Sam, rappresentano la bugia insita nell’idealismo: non c’è possibilità di salvazione poiché esso è «confusione e sentimenti falsi». In questo come in tutti gli scritti di Lawrence è rinvenibile una certa aristocrazia di pensiero, quell’approccio elitario e nichilista ad un tempo teso ad abbattere ogni trionfalismo, ogni eroismo, ogni scintilla di vita umana.

D.H. Lawrence (2009), Classici americani, a cura di P. Dilonardo, Adelphi, Milano, pp. 256