Visualizzazione post con etichetta cristianesimo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cristianesimo. Mostra tutti i post

martedì 16 febbraio 2016

"Yossl Rakover si rivolge a Dio"


Il misterioso libro di Zvi Kolitz (1912-2002) - incazzato e religiosissimo - e un viaggio in Terra Santa mi diede modo di riflettere sulla natura spirituale di una città da sempre teatro di scontri politici, culturali, religiosi ed economici: Gerusalemme, capitale non riconosciuta dello Stato di Israele, contesa maggiormente da ebrei e musulmani, dove i cristiani giocano un ruolo neutrale ma per niente secondario. La custodia della città e di tutti i luoghi della Palestina è affidata ai francescani, che rispondono direttamente al papa; la sovranità politica è invece appannaggio dello Stato semita, mentre a nord e a est gli arabi reclamano la loro parte e, di fatto, ce l’hanno, pur se fra mille problemi di natura perlopiù economica. I territori sotto l’autorità palestinese non hanno infatti alcun introito dalle attività commerciali di frontiera e di dogana. Ma ciò che più ci preme evidenziare in questa sede è il (mancato) dialogo spirituale fra le diverse confessioni lì operanti. Islamici sunniti e sciiti, ebrei riformati, haredim e sefarditi, cristiani cattolici, luterani, ortodossi greci, armeni e copti, melchiti; tutte le varie liturgie dei grandi monoteismi si combattono realmente, giorno dopo giorno, quasi dimenticando la valenza divina che Gerusalemme esercita su esse. Nella Basilica del Santo Sepolcro, dove la tradizione rinviene con certezza la cripta di Cristo, v'è un continuo avvicendarsi di riti e genti, tanto che, talvolta, non mancano le scazzottate tra i rappresentanti religiosi. Ma il sentimento di reciproca diffidenza che sovrano regna sulla Città della Pace è nella sostanza ben più profondo, almeno a livello eminentemente spirituale. La leggenda abramitica che ha dato vita alle tre religioni di massa affonda infatti le sue radici in una menzogna divina o, per così dire, semidivina, in quanto pretende di innalzare ogni uomo all’essenza di Dio, di riconoscere in qualche modo una vita pneumatica dopo la morte. Se il nodo centrale è stato risolto con faciloneria dalla teologia apofatica, permane tuttavia il bisogno di ogni religione di affermare l’unicità della propria visione. Lo scontro secolare tra queste presunzioni di compiutezza - simboleggiato nei millenni dal gusto estetico di Solimano, dalla reggenza di Baldovino, dalla estasiante vittoria di Saladino, dall’apertura mentale di Costantino ed Elena, fino ai giorni nostri dell’intifada e della guerra israelo-palestinese - ha provocato una sì incisiva stratificazione religiosa sul territorio di Gerusalemme da render vana, se non impossibile, una netta presa di posizione sull’ingarbugliata faccenda. Così come a livello politico, ancor più nell’ambito religioso, il manicheismo esistente tra il Regno di Dio e la città terrena s'è fatto concreto, alimentando un clima di perpetuo sospetto, di odio latente, di inestinguibile diversità. Gerusalemme, molto più di Roma, Istanbul e La Mecca, resta una città sospesa, imprigionata nella sua natura di madre inadatta, una mammella che allatta tre figli sbagliati, con nipoti altrettanto sgarbati. È necessario comprendere che se verrà risolta la questione palestinese si spegneranno molti conflitti sul pianeta. Torquato Tasso, oltre quattro secoli or sono, parlava di una Gerusalemme liberata. E allora liberatela questa Città Santa, annullando una volta per tutte Dio dal vostro agire quotidiano, perché Dio non esiste, anche se c’è.

Zvi Kolitz (1997), Yossl Rakover si rivolge a Dio, trad. di A.L. Callow e R. Carpinella Guarneri, Adelphi, Milano, pp. 91.

martedì 5 gennaio 2016

"Le porte regali"


La religione cristiana, in tutte le sue confessioni, si caratterizza per l’uso millenario dell’iconografia attraverso una ritrattistica che include sia le scene sacre che le divinità stesse. Il Cristo, la Madonna, la Trinità, i santi, la Bibbia: tutto è stato rappresentato nei vari secoli da maestri, artisti ed artigiani che, con tecniche e interpretazioni spesso diverse, hanno impresso, sui più disparati materiali, la verità rivelata del Signore Nostro. D’altronde, il cristianesimo si contraddistingue dalle altre religioni abramitiche proprio per l’enfasi conferita alla figura del dio-uomo, più che a quella di Dio in quanto entità suprema e inintelligibile. Ne "Le porte regali" (1922) del misconosciuto mistico Pavel Florenskij (1882-1937) l’icona è qualcosa di metafisico: i colori utilizzati, la tecnica pittorica, la decorazione e il contorno, la scena ritratta. Finanche l’artista, legato indissolubilmente all’opera, è qui un uomo dalla vita integerrima, estranea al peccato e alle tentazioni. Egli, controllato a vista dalla Chiesa, è un mestierante del Padreterno, un artigiano che percorre la via del talento per raggiungere l’estasi. Ma tra le righe di questo interessantissimo libro c’è qualcos’altro, qualcosa che forse sfugge a tutte le altre religioni. Mi riferisco al fatto che l’iconografia è più forte della teologia, nel senso che se la seconda è comprensibile solo ad una sparuta minoranza di intellettuali, l’icona, al contrario, è rivolta alla massa. Essa ha dunque avuto una funzione educatrice – dal punto di vista religioso – incomparabilmente superiore alla speculazione teologica dei dottori della cristianità. Ciò ha portato a una maggiore dialettica all’interno della Chiesa e, non a caso, quella cristiana è stata la religione più conflittuale della storia: scismi, riforme, controriforme, l’hanno resa ciò che è oggi. L’icona che Florenskij indaga in maniera puntigliosa ha dunque avuto un ruolo più importante di quello che si è soliti pensare. Il cristianesimo, oggi giunto all’equilibrio e alla moderazione, deve essergliene infinitamente grato.

Pavel Florenskij (1977), Le porte regali, a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano, pp. 192.

venerdì 13 febbraio 2015

"L'uomo della novità" e "Tesi per la fine del problema di Dio"


C’è stato un momento nella storia italiana in cui, contemporaneamente alla rinascita democratica, è stato possibile un rinnovamento religioso del nostro popolo. Ci riferiamo al tentativo di Ferdinando Tartaglia (1916-1987) - prete cattolico scomunicato a divinis - di riformare, subito dopo la seconda guerra mondiale, la Chiesa di Roma attraverso una profonda trasformazione morale, che andava dalla ritrovata purezza della religione all’emancipazione della donna, in una sorta di religione letteraria che attingeva da Marcel Proust e Gabriele D’Annunzio, Cecco Angiolieri e Baruch Spinoza, Giovanni Pascoli e Nikolaj Berdjaev, Aldo Capitini e Charles Lamb, creando un acceso dibattito negli ambienti intellettualmente più focosi del tempo, riuscendo persino a metter d’accordo fascisti, democristiani, anarchici e comunisti (vedi "Tesi per la fine del problema di Dio", 1949). Tartaglia era in grado di miscelare l’indeterminatezza delle filosofie e delle religioni orientali - il buddismo su tutte - con l’austera liturgia delle confessioni europee, riuscendo, agli occhi degli stolti, al massimo come un protestante, un calvinista, un nuovo Martin Lutero. Nel bel libro di Giulio Cattaneo (1925-2010) - il cui titolo, "L'uomo della novità", racchiude sommamente l’avvento della rivoluzione - il pensiero tartagliano, spesso vicino al Tao, appare assai sfuggente per venir codificato dalle masse, a quel tempo troppo indaffarate a vestire casacche partitiche opposte e a spartirsi la torta ideologica del dopoguerra. L’ammutolimento delle opposizioni deciso dal ventennio mussoliniano aveva provocato, sin dal 1948, un’accesa competizione in un paese affamato di politica eppur così politicamente immaturo. La riforma religiosa di Tartaglia arrivava dunque in un momento intellettualmente vivo, fin troppo vivo per una trasmigrazione di valori religiosi. Fu però un atavico bigottismo, di stampo tipicamente cattolico, a suggellare la fine dell’utopia di Tartaglia con l’etichetta di eretico. È su alcune riviste conservatrici che si cominciò ad utilizzare il neologismo tartagliare, come di qualcuno che parla a sproposito, senza senno. E nel 1960, in uno degli ultimi dibattiti pubblici, l’eretico Ferdinando affermò: «Tartaglia è il nome di una maschera: maschera tace e fugge, per eco ed eco di teatro». Fu così che la sua meteora si spense, e di conseguenza morì il sogno di un rinnovato cristianesimo fatto di spirito e non di materia.

Giulio Cattaneo (2002), L’uomo della novità, Adelphi, Milano, pp. 119
Ferdinando Tartaglia (2002), Tesi per la fine del problema di Dio, Adelphi, Milano, pp. 160