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mercoledì 26 agosto 2015

"La religione dei Cinesi"


Marcel Granet (1884-1940) è stato forse il più grande sinologo europeo che nel saggio "La religione dei Cinesi" - scritto nel 1922 ma pubblicato postumo nel 1951 - spiega come l’intreccio religioso e culturale abbia consentito alla Cina di creare una solida base per edificare in un futuro prossimo, rispetto ai tempi di Granet, una società forte e florida. Si sta diffondendo sempre più, presso le élite accademiche e governative, la convinzione secondo cui la terza via cinese possa competere con quella europea. Questo confronto appare non solo metodologicamente sbagliato ma soprattutto potenzialmente dannoso. Fino a venticinque anni fa eravamo abituati ad un mondo regolato dallo scontro ideologico tra il blocco capitalistico degli USA e quello socialista dell’URSS. Con la caduta del Muro questa dicotomia è svanita ma l’Europa, da sempre al centro di contese e conflitti, ha continuato, seppur tra mille difficoltà socioeconomiche, il proprio esperimento democratico, fatto di libero mercato e diritti civili. Mettere in discussione questo percorso, bisbigliando sempre meno a bassa voce che la Cina sia un modello vincente, è un’offesa alle vittorie ottenute nel corso dei secoli dall’umanità occidentale. Il Celeste Impero, fonte di tanta cultura e saggezza, è diventato un gigante esclusivamente economico, con pochi progressi dal punto di vista della libertà individuale e del diritto, dunque della felicità del popolo. In termini di metodo, porre sullo stesso piano il sistema cinese e quello europeo presuppone una loro possibile integrazione, il che si tramuterebbe a sua volta, sul piano concreto, non nell’agognata piena occupazione delle risorse lavorative bensì nella dittatura del lavoro, causando il definitivo tramonto della civiltà europea. Cina ed Europa devono conoscersi, scoprirsi, commerciare, cooperare. Ma il cielo non voglia che questo processo diventi un do ut des, giacché quello cinese non è realmente un modello, ma un feticcio, e di certo non per le iperinflazionate teorie che accusano la Cina di neoschiavismo, ma per la sostituzione di valori, lì operata, tra vita e lavoro, felicità e produzione. Gli stati totalitari fanno discendere ogni diritto dal Leviatano, quelli democratici li considerano innati negli individui; la Cina pare farli provenire dalla produttività, uno dei concetti moralmente più aberranti nella storia umana, in quanto istituzionalizza la natura macchinistica del cittadino e, di conseguenza, realizza la sua più completa sostituibilità. In un mondo sempre più virtuale e bisognoso di cultura, un siffatto approccio causerebbe un gigantesco passo indietro, gettando l’Europa in una nuova e controproducente era industriale. Il substrato culturale e il motore industriale ha giustamente posto la Cina ai vertici delle relazioni internazionali, ma ciò non significa che questo sia un valore assoluto cui aderire per produrre ricchezza. I problemi insiti nel sistema cinese non tarderanno a presentarsi e tra alcuni lustri si parlerà del boom economico cinese come di una causa scatenante - non di un effetto collaterale - del suo deficit democratico. E come il deficit, che accumulandosi crea lo stock di debito, al pari la Cina pagherà caro il suo debito pubblico di felicità. Della religione cinese, che faceva a meno di Dio e che Marcel Granet ammirava tanto, resta ben poco, soprattutto perché ora un dio ce l’ha: il suo nome è Renminbi.

Marcel Granet (1973), La religione dei Cinesi, trad. di B. Candian, Adelphi, Milano, pp. 192

giovedì 6 agosto 2015

"Vite di Paolo, Ilarione e Malco"


Agli albori del cristianesimo tre eremiti d’oriente, Paolo, Ilarione e Malco, hanno vissuto Dio con esasperante misticismo, leggenda e totale distaccamento dalle passioni terrene. Terminato il Medioevo, in pieno Seicento, troviamo invece Giuseppe da Copertino (1603-1663), vero anticipatore di quella estetica dell’oltre che tanto fortemente sta segnando l’epoca nostra. Il religioso visse una mistica profondissima che lo portò all’estasi ripetute volte; cominciò con la levitazione e giunse a compiere voli, tanto da meritarsi il patronato degli aviatori. Ma Giuseppe è anche qualcosa di più. Al di là della mera prestidigitazione religiosa, il santo venerò e fu venerato in modo fanatico. La sua adorazione per la Madonna lo spinse a desiderare così tanto una Sua icona per il convento in cui viveva che quando la ebbe tra le mani la distrusse, consapevole ormai che venerava più il feticcio che non la Madonna stessa. Esempio, dunque, di grande rigore religioso, ma anche di gretta iconoclastia. Alla sua morte, d’altronde, il corpo venne subdolamente esposto al pubblico e la calca giunta in cattedrale per vederlo o toccarlo fu tale che scoppiò un incendio, tanto che quel ludibrio funebre si trasformò in una carneficina umana: il contenitore terreno di Giuseppe da Copertino si salvò miracolosamente eccetto un dito e il cuore, asportati da qualche fanatico di reliquie. La sua intera parabola è quindi da ascrivere pienamente alla fenomenologia religiosa, ma in essa si trovano alcune importanti similitudini con l’esaltazione dei simulacri odierni, siano essi rockstar, opere d’arte, religioni e ideologie, informazioni in broadcasting. Non v’è forse lo stesso fanatismo iconoclasta dietro le morti di Michael Jackson, Amy Winehouse o Whitney Houston? Non v’è forse quella stessa ferrea e ostinata e medievale credenza nelle notizie provenienti da internet? Non v’è forse la stessa feroce bestialità dietro gli scempi mediatici di Novi Ligure, Cogne, Avetrana o Garlasco? Non v’è forse lo stesso fanatismo vecchio di millenni dietro gli attacchi kamizake e le disumanità dell’ISIS? Da come la storia sembri ripetersi e con quale sorprendente periodicità, si potrebbe giungere alla conclusione che la storia stessa nemmeno esista. E allora bisognerebbe capire che è la materia umana a reiterarsi nel tempo, simile a se stessa dai secoli dei secoli, da (per) sempre. Giuseppe da Copertino non ebbe mai l’accortezza di distinguere il falso dal vero, per via della sua mistica cristallina, in un’epoca in cui il figlio del contadino era contadino e quello del conte, per sillogismo, conte. Figuriamoci poi se Dio non manteneva le promesse e non concretizzava le minacce iscritte nei libri sacri! Oggi, abbandonata l’irrazionalità tipica dei monoteismi, come i tre monaci raccontati da san Girolamo - che non si lasciavano tentare dalle meretrici - si dovrebbero riportare il gusto e l’estetica ad Eros, piuttosto che proseguire sulla strada del porno. Se la misura delle cose non verrà ricercata alla svelta sarà legittimo pensare che questa civiltà, la nostra, sia davvero giunta all’ultima stazione.

San Girolamo (1975), Vite di Paolo, Ilarione e Malco, trad. di G. Lanata, Adelphi, Milano, pp. 146

lunedì 8 giugno 2015

"Il Demiurgo" e "Gli stati molteplici dell'essere"


La figura mitologica del Demiurgo fu introdotta nel pensiero occidentale da Platone, fondamentalmente per risolvere una questione ontologica: chi dà forma al mondo? Nei saggi di René Guénon (1886-1951) compresi nell’arco temporale che va dal 1909 al 1950, tutti molto omogenei e coerenti, l’esoterista francese rimette la figura divina dell’artigiano al suo posto, ovvero come mediazione tra il genere umano, l’Adam Kadmon, e le sfere celesti, l’Iperuranio, Dio. Ma nella gnostica ricerca della verità integrale una e una sola, indivisibile, monoteista si imbatte anche nel mormonismo e nella reincarnazione, entrambi sagacemente condannati dal nostro con l'accusa di spiritismo o, peggio, psichismo. Sul consueto percorso intellettuale di Guénon si intrecciano dunque le vie spirituali di tutte le religioni del mondo, e di nuovo torna preponderante il concetto di spirito - già espresso con magniloquenza nel capolavoro de "Il Re del Mondo" (Adelphi, 1977) - cui Guénon affianca il πνεύμα (pneumagreco e lo yogi indù. Ma in questa preziosa raccolta vi sono anche affascinanti teorie numerologiche e cosmogoniche, nonché un’aperta critica alla società contemporanea, accusata di esser diventata il regno della scienza profana, che ha rinnegato le dottrine tradizionali in favore di un involgarimento delle conoscenze scientifiche, ha appiattito la cultura per inseguire il modello dell’istruzione pubblica a scapito dell’insegnamento elitario, una società che insomma ha sacrificato la qualità sull’altare della quantità. Come dargli torto? Ciononostante i saggi contenuti ne "Il Demiurgo", e maggiormente "Gli stati molteplici dell'essere" (1932), sono stati aspramente criticati nel corso dei decenni; i detrattori di René Guénon lo hanno accusato di aver fornito prove scientifiche troppo evanescenti per sorreggere le sue teorie, oppure di aver inseguito un modello religioso acefalo che non includesse l’elemento rivoluzionario rappresentato dall’avvento del Cristo, od ancora di aver proposto soluzioni errate per le pratiche di iniziazione, infine di apostasia per aver rinnegato il cattolicesimo in favore del sufismo. Recepita o biasimata, l’opera chiarificatrice di Guénon è comunque importantissima perché rappresenta un ponte tra le diverse anime della spiritualità terrestre, un ponte che, ieri come oggi, si pone come mezzo di comprensione dell’altro e di pacifica convivenza tra tutte le popolazioni.

René Guénon (2007), Il Demiurgo e altri saggi, trad. di G. Cillario, Adelphi, Milano, pp. 313
René Guénon (1996), Gli stati molteplici dell'essere, trad. di L. Pellizzi, Adelphi, Milano, pp. 148


venerdì 13 febbraio 2015

"L'uomo della novità" e "Tesi per la fine del problema di Dio"


C’è stato un momento nella storia italiana in cui, contemporaneamente alla rinascita democratica, è stato possibile un rinnovamento religioso del nostro popolo. Ci riferiamo al tentativo di Ferdinando Tartaglia (1916-1987) - prete cattolico scomunicato a divinis - di riformare, subito dopo la seconda guerra mondiale, la Chiesa di Roma attraverso una profonda trasformazione morale, che andava dalla ritrovata purezza della religione all’emancipazione della donna, in una sorta di religione letteraria che attingeva da Marcel Proust e Gabriele D’Annunzio, Cecco Angiolieri e Baruch Spinoza, Giovanni Pascoli e Nikolaj Berdjaev, Aldo Capitini e Charles Lamb, creando un acceso dibattito negli ambienti intellettualmente più focosi del tempo, riuscendo persino a metter d’accordo fascisti, democristiani, anarchici e comunisti (vedi "Tesi per la fine del problema di Dio", 1949). Tartaglia era in grado di miscelare l’indeterminatezza delle filosofie e delle religioni orientali - il buddismo su tutte - con l’austera liturgia delle confessioni europee, riuscendo, agli occhi degli stolti, al massimo come un protestante, un calvinista, un nuovo Martin Lutero. Nel bel libro di Giulio Cattaneo (1925-2010) - il cui titolo, "L'uomo della novità", racchiude sommamente l’avvento della rivoluzione - il pensiero tartagliano, spesso vicino al Tao, appare assai sfuggente per venir codificato dalle masse, a quel tempo troppo indaffarate a vestire casacche partitiche opposte e a spartirsi la torta ideologica del dopoguerra. L’ammutolimento delle opposizioni deciso dal ventennio mussoliniano aveva provocato, sin dal 1948, un’accesa competizione in un paese affamato di politica eppur così politicamente immaturo. La riforma religiosa di Tartaglia arrivava dunque in un momento intellettualmente vivo, fin troppo vivo per una trasmigrazione di valori religiosi. Fu però un atavico bigottismo, di stampo tipicamente cattolico, a suggellare la fine dell’utopia di Tartaglia con l’etichetta di eretico. È su alcune riviste conservatrici che si cominciò ad utilizzare il neologismo tartagliare, come di qualcuno che parla a sproposito, senza senno. E nel 1960, in uno degli ultimi dibattiti pubblici, l’eretico Ferdinando affermò: «Tartaglia è il nome di una maschera: maschera tace e fugge, per eco ed eco di teatro». Fu così che la sua meteora si spense, e di conseguenza morì il sogno di un rinnovato cristianesimo fatto di spirito e non di materia.

Giulio Cattaneo (2002), L’uomo della novità, Adelphi, Milano, pp. 119
Ferdinando Tartaglia (2002), Tesi per la fine del problema di Dio, Adelphi, Milano, pp. 160