Visualizzazione post con etichetta urss. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta urss. Mostra tutti i post

giovedì 27 agosto 2015

"Bianco su nero"


Non ho mai condiviso la dicitura diversamente abili. Mi sa di ipocrisia e falsa pietà, una di quelle ruffianerie che gli uomini fanno per alleggerirsi la coscienza, perlomeno a parole, cercando così di alleviare lo status di chi è disabile. Una persona che nasce senza l’uso degli arti e con un evidente ritardo mentale è un handicappato, e non ha nulla di diversamente abile da un normodotato; la sua vita e quella di chi gli sta attorno saranno molto probabilmente un inferno. Poi arriva Rubén Gallego a confutare questa mia teoria, anche se, a pensarci bene, lo scrittore russo possiede davvero delle abilità diverse, poiché ha un talento raro, se confrontato alla maggioranza delle persone normali. "Bianco su nero" è proprio il racconto in prima persona, verissimo e veritiero, della sua infanzia nei vari orfanotrofi, ospedali e ospizi sovietici. Messo al mondo da due negri e lasciato ad appassire per via delle sue terribili disabilità (il nonno dirigente del Partido Comunista de España non poteva permettersi un nipote illegittimo e deforme), Gallego sopravviverà all’infame condizione dell’essere soli al mondo grazie ad un’intelligenza sopraffina e ad un’eleganza di pensiero che in seguito ne hanno fatto il grande scrittore che è oggi. Oltre alle sue guerre quotidiane - procurarsi il cibo o andare in bagno, ritagliarsi attimi di anarchia o risolvere problemi matematici - è sorprendente vedere come all’interno di un regime ateo ed anticlericale come quello sovietico, la religione e la carità cristiane siano sopravvissute clandestinamente negli animi di molte infermiere, insegnanti ed inservienti che il protagonista ha incontrato sul suo doloroso ma dignitosissimo cammino. È lo stesso Gallego a dire apertamente: «Grazie a tutte le inservienti buone, per avermi insegnato cos’è la bontà, per il calore che ho conservato nel mio cuore attraverso ogni sorta di vicissitudini. Grazie per ciò che non si può esprimere a parole, che non si calcola al computer e che non si misura. Grazie per l’amore e la carità cristiana, per il mio essere cattolico, per le mie bambine. Grazie di tutto». Semplice e toccante.

Rubén Gallego (2004), Bianco su nero, trad. di E. Gori Corti, Adelphi, Milano, pp. 187

mercoledì 8 luglio 2015

"Futilità" e "La sovrana"


La rivoluzione, la libertà, l’uguaglianza, tutte cose molto belle già per il semplice fatto di nominarle. In realtà l’avvento di cambiamenti così drastici all’interno di una società iniqua, se da una parte assicura maggiori diritti a classi sociali via via più estese, dall’altra esautora e svilisce - più spesso abbatte o massacra - le classi che rappresentavano quella stessa società. E non intendiamo qui soltanto i sovrani o gli aristocratici o gli sfruttatori, ma anche e soprattutto la piccola e media borghesia che, come nel caso russo all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, andò incontro alla rovina più nera. Nell’occidente abbacinato dal mito della rivoluzione bolscevica sono tantissimi i riferimenti letterari a quel mondo utopico e reale a un tempo, come se l’URSS fosse un Bengodi socialista per il corpo e lo spirito; tuttavia dalla Russia stessa cominciarono a provenire, nell’era della distensione crusceviana, le prime legittime rimostranze verso lo stato totalitario e lo strumento da esso utilizzato per garantire la pace sociale: il gulag. Fra questi due antipodici fuochi v’è un misconosciuto scrittore inglese nato a San Pietroburgo, William Gerhardie (1895-1977), che ha raccontato la Russia sovietica negli occhi di un imprenditore minerario e di come i bolscevichi lo abbiano praticamente messo in mutande. "Futilità" (1922), lo dice il titolo, è proprio l’atteggiamento di questa famiglia - allargata all’inverosimile, poiché tutti dipendono dal reddito del capofamiglia - vieppiù attaccata alle insulsaggini borghesi, a quelle sacrosante futilità che la collettivizzazione ha sradicato. È come se la rivoluzione leninista abbia sacrificato sull’altare dell’eguaglianza il diritto ad essere banali, soddisfatti, realizzati. La vita degli esuli russi in terra di Francia è invece il nucleo narrativo de "La sovrana" (1932) di Nina Berberova (1901-1993), anch’ella pietroburghese. La famiglia ritratta dalla Berberova è diventata già una cellula sociale spaiata, le cui futilità sono le stesse di oggi: l’amore, l’università, la carriera, la convivenza, i rapporti familiari. Le vite raccontate in questi due libri non sono fotoromanzi tant’è che non terminano all’ultima pagina. Gerhardie e la Berberova ci forniscono gli elementi per cercare di comprendere, ci offrono un assaggio di cosa sono stati i russi e la Russia al di là d’ogni stereotipo. A noi, a voi, sta la possibilità di farsi un’opinione.

William Gerhardie (2003), Futilità, trad. di G. Celati, Adelphi, Milano, pp. 231
Nina Berberova (1996), La sovrana, trad. di M. Calusio, Adelphi, Milano, pp. 134


venerdì 26 giugno 2015

"Limonov" e "L'affare Kurilov"


Due personaggi, entrambi russi; il primo realmente esistito e vivente, il secondo di pura fantasia, però verosimile; uno nato in epoca sovietica tanto da averne conosciuto e pianto la fine, l’altro, rappresentante dello zarismo, vissuto a cavallo della rivoluzione d’Ottobre. Eduard Savenko (1943), conosciuto come Limonov, è poeta scrittore nazional-stalinista, uccello del sottobosco moscovita, fondatore dei tanto temuti nazbol, allevato nel mito della Battaglia di Stalingrado e quindi diventato un acerrimo nemico dei grigi governi sovietici, tanto da meritarsi la dicitura di «elemento antisociale, fermamente antisovietico», che lo costringerà all’esilio e, di conseguenza, lo porterà prima nella plastificata New York di Andy Warhol, nella pasciuta Parigi e tra le linee di guerra balcaniche (a fianco dei cetnici) e moldave (dalla parte dei transnistriani) per far poi ritorno in madrepatria come nemico giurato di Vladimir Putin. Il bohémien Ed Limonov, un perfetto Oscar Wilde novecentesco: la sua vita è stata una vera e propria montagna russa fatta di confuse ma allettanti illuminazioni politiche e un lucidissimo stile letterario e poetico, pagati al prezzo di lavori umilianti, esperienze sessuali d’ogni tipo (dallo stupro alla pederastia), fallimenti sentimentali da gettarsi fra le rotaie del treno, suicidi quasi riusciti, e poi bassifondi, galere, guerre civili, porte in faccia, porcherie da clochard. Emmanuel Carrère (1957) è genuinamente affascinato dalla figura del fascista Limonov e non fa nulla per nascondere la sua ammirazione verso quest’uomo dal passato e dal presente discutibili, in quella mistura ideologica di stalinismo, dandismo, nazionalismo, socialismo, cristianesimo ed esotismo. Un garibaldino dei giorni nostri. Di tutt’altro genere è invece la storia raccontata da Irène Némirovsky (1903-1942) ne “L’affare Kurilov” (1933): si parla qui dell’omicidio perpetrato dai rivoluzionari russi ai danni del ministro della Pubblica Istruzione Valerian Kurilov, detto Pescecane per via della sua ieraticità e per il frequente ricorso alle armi durante le manifestazioni dei bolscevichi della prima ora. In realtà il killer, che da infiltrato vivrà al fianco del ministro come medico personale, conoscerà un altro uomo, educato, innamorato della moglie - per lei getterà la carriera alle ortiche - nonché fedelissimo a Nicola II, nonostante questi nutra poca stima per la sua persona. Limonov e Kurilov: da una parte un guerrigliero sempre pronto all’azione pur di scardinare ogni struttura acquisita, dallo Stato alla società civile, dal sistema dell’editoria alle arti amorose; agli antipodi un leale ed onesto servitore della patria disposto a tutto pur di rispettare la parola data allo zar, e che vive il lavoro e la famiglia come autentiche missioni di ispirazione divina. Non possiamo non empatizzare con entrambi i personaggi che, nei differenti e grandiosi registri di Carrère e della Némirovsky, ci appaiono luminosi e ambivalenti, imperscrutabili, sbagliati ed irraggiungibili.

Emmanuel Carrère (2012), Limonov, trad. di F. Bergamasco, Adelphi, Milano, pp. 356
Irène Némirovsky (2009), L’affare Kurilov, trad. di M. Di Leo, Adelphi, Milano, pp. 192