venerdì 28 giugno 2013

Bene, adesso basta (IV)


4. L’incomunicabilità della parola
Uno dei più importanti problemi che Bene risolse, in ambito teatrale, fu quello riguardante la comunicazione dell’attore. Partendo dall’assunto che il discorso non fa parte dell’essere parlante, in quanto una volta fuori di esso non è più parte di esso, CB fu il primo a portare in scena il microfono, contravvenendo al tradizionale divieto di amplificare la voce. Grazie alla musicistica di Luciano Berio (1925-2003), che a lungo lavorò sul timbro vocale di Cathy Berberian (1925-1983), Carmelo riuscì a convincere il teatro che il microfono in realtà non amplificava un bel niente. Semmai è l’attore non amplificato che è costretto ad impostare e modulare la propria voce, falsificandola ed esponendola al pubblico ludibrio. Con la scelta oscena (proprio perché fuori della scena) di amplificare la voce CB ingannò il pubblico nell’ormai celeberrima "Lectura Dantis" a Bologna, una magnifica odissea dantesca ben lontana e aristocraticamente superiore alla grottesca caricatura perpetrata negli ultimi anni da Roberto Benigni (1952) sui testi del sommo. Il trauma del linguaggio, come analizzò approfonditamente lo psicologo Jacques Lacan (1901-1981), stava proprio nell’assenza del significante, quel piano del linguaggio che ne è la forma ma che riferisce già il contenuto, ovvero il significato. Quando CB affermava che «il significato è un sasso in bocca al significante», intendeva proprio l’inscindibilità dei due concetti, anzi evidenziava l’irrisolvibile questione dacché il primo ostacola sempre il secondo, fino a confondersi con esso, almeno alle spaurite orecchie del pubblico. La soluzione di Bene è ancora lungi dall’esser accettata, ma rimane a mo’ di profezia autoavverantesi. L’idea beniana dunque non si ferma al teatro, incomunicabile per definizione, ma si allarga a tutti gli ambiti della vita. La parola, quel mirabile ed oscuro oggetto che viene espulso dai nostri corpi, non è mai di nostra proprietà. E se la parola non è nostra e non ci rappresenta, allora anche il pensiero – che noi crediamo abbia partorito quella parola – non ci appartiene ed è fuori di noi, è altro da noi. Al posto nostro parlano milioni e miliardi di significanti, di cui è impossibile tracciarne i contorni proprio perché rappresentano la stratificazione operata dalla storia che è alle nostre spalle, sulle nostre spalle. Quando i futuristi, per primi, violentemente trascinarono nella prosa e nella poesia l’arte del paroliberismo (consigliamo di leggere il "Manifesto tecnico della letteratura futurista" pubblicato da Marinetti nel 1912), ci stavano semplicemente prendendo a schiaffi per farci aprire gli occhi su questo aspetto della comunicazione: che tutta la nostra vita è fatta di parole, dunque di stupidaggini. Ancor più stupido è colui che dà un peso concreto a queste parole.

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