giovedì 27 giugno 2013

Bene, adesso basta (III)


3. Non si sfugge alla macchina
Gilles Deleuze (1925-1995), forse il più grande filosofo francese del Novecento, affermava che: «On n’échappe pas de la machine». Ma qual è la macchina a cui Deleuze, e CB di rimando, si riferiscono? La storia, ovviamente. Perché tutta la storia che ci portiamo sulle spalle non è altro che la manifestazione eziologica della borghesia, della libertà, dello Stato. La machine è pressante quotidianamente negli affetti, nel lavoro, nella passione, nel dolore, nell’entusiasmo. Quale libertà è mai possibile se la machine foraggia il lavoro? Nessuna, infatti non si può esser davvero liberi se lo Stato fa di tutto affinché i suoi cittadini siano occupati: in parole povere, la macchina cerca di occupare il nostro vuoto con attività direttamente utili alla macchina stessa. È nella vera disoccupazione la libertà dalla macchina. Come pure sta nel rifiuto dell’amore, uno degli altri escamotage inventati dalla storia per preservare la specie, per ordinare in matrimoni, coppie e affetti l’infinita vaghezza dell’uomo. La libertà, questa terribile catena che incatena l’uomo a ciò che non esiste, si fa ancor più indecente nella stampa e nell’informazione. La libertà di stampa è un mostro da uccidere e, forse, si rende sopportabile solo allorché diventa libertà dalla stampa. Come può la stampa informare sui fatti se non fa altro che informare i fatti? Proprio per la confusione semiotica venutasi a creare tra atto, fatto e azione (come spiegato nel precedente intervento), i mezzi di stampa, che le democrazie portano sugli altari come supremo segnale di libertà, non fanno che parlare di fatti – per definizione, non più esistenti, quindi non più nei fatti. In "Guerra e pace" (1865-69) Lev Tolstoj (1828-1910) sosteneva che: «L’arma più potente dell’ignoranza [è] la diffusione di materiale stampato». A tal riguardo concentriamoci su come la machine deleuziana brutalizzi ogni legittima aspirazione al buio. Non si sfugge alla macchina, dunque. Schiere di filosofi ed artisti (da Schopenhauer e Kierkegaard fino a Piero Manzoni e Lucio Fontana) hanno cercato di spezzare questo giogo ma Bene c’ha convinto che né lo strumento del pensiero né quello dell’arte sono in grado di rompere la catena di montaggio. La soluzione è sempre la stessa: uscire da sé e dalla storia. Depensando fino a decostruirsi, riducendo fino a scomparire, annientando fino a non lasciar traccia alcuna; il tutto si traduce quindi in un’elevazione verticale della volontà di potenza. Tanto che CB non usa mai il concetto di nichilismo, né tantomento quello di trascendenza, ma è fin troppo chiaro che il suo essere oltre se stesso è ciò che i nichilisti hanno sempre tentato di spiegare, nel "Viaggio al termine della notte" (1932) di Céline (1894-1961) come ne "L'inconveniente di essere nati" (1973) di Emil Cioran (1911-1995). La fede nella libertà democratica – ovvero la servitù alla macchina – ha finanche convinto i cittadini – ovvero i sudditi dello Stato – ad uno scandaloso capovolgimento di ruoli: da elettori ad eletti. La bestia della democrazia, attraverso l’alfabetizzazione delle masse, ha cioè confuso i piani sociali a tal punto che il votante, stanco della sua mansione quotidiana, ha potuto aspirare all’onorabilità di esser eletto. Il risultato? I giovani rappresentano la classe politica peggiore mai esistita in questo Paese. Insomma, bisogna smettere di produrre capolavori ma essere dei capolavori. Senza vanità, senza entusiasmo, senza passione. Essere finalmente per essere. Oltre la macchina, al di là del deus ex machina.

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