martedì 10 febbraio 2015

"La passeggiata" e "La rosa"


Leggere quel capolavoro de "La passeggiata" (1917) può apparire davvero una passeggiata se confrontato a "La rosa" (1925), raccolta di microgrammi scritti poco prima del definitivo internamento dello scrittore svizzero in clinica psichiatrica. Ossessionato da voci, allucinazioni ed ansie, Robert Walser (1878-1956) ci ha lasciato queste quaranta prose, spesso indecifrabili, quasi fossero soggetti cinematografici, incipit letterari, condensati in pochissime pagine eppure completi dal punto di vista della trama. L’universo dei personaggi walseriani è costellato di donne in apparenza insicure - che nascondono spesso una verità più alta ("Gerda"), un amore mai sopito ("L’urna" e "La donna amata") o un’insulsa vanità ("La strana ragazza") - oppure appartengono alla fauna umana circostante ("Uno scolaro modello" e "Un ceffone e altre cose"), od infine possono essere letterati ("Wörishöfer" e "Sacher-Masoch") e recensioni di opere letterarie ("L’idiota di Dostoevskij", "La novella di Keller" e "Ludwig"). Scoperto assai tardi e forse mai realmente apprezzato, Robert Walser rappresenta il mondo post-nietzschiano, in una tragica deriva tra la volontà di potenza e l’infinita piccolezza dell’essere. Lo svizzero rappresenta proprio quella tensione esistente tra i due estremi del continuum, ed il prezzo da pagare al fine non può che essere la follia. In questa raccolta Walser diventa finalmente se stesso; egli si transustanzia al rango di superuomo: non c’è più nulla che possa lusingarlo o abbatterlo, nulla è ormai fuori di lui. Ne "La rosa" è pure intatto il tipico punto d’osservazione walseriano, la Morgenspaziergang, quella passeggiata mattutina che dà modo all’autore di guardare il mondo circostante e, come fosse sulla sommità d’una rocca inscalfibile, crogiolarsene accondiscendendo, deridendo, giudicando, senza tuttavia l’ombra di una condanna.

Robert Walser (1976), La passeggiata, trad. di E. Castellani, Adelphi, Milano, pp. 106
Robert Walser (1992), La rosa, trad. di A. Bianco, Adelphi, Milano, pp. 146


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