martedì 25 giugno 2013

Bene, adesso basta (I)


Il corpo di Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene nasce in Salento il 1° settembre 1937 e muore a Roma il 16 marzo 2002. Impossibile sarebbe disvelare il capolavoro che si cela dentro questo corpo, abortito perché non voluto, rinnegato, ed infine smarrito, abbandonato, assieme al proprio io. Bene è oggettivamente il più grande attore e drammaturgo italiano del Novecento, anche se di questa oggettività ci interessa poco. Del suo essere capolavoro rimangono regìe, scritti vari, pellicole, articoli, libri, partecipazioni, interviste, prove d’attore, lezioni. Cercheremo di dipanare la matassa di significa(n)ti presenti nell’opera e nell’azione beniana, o sarebbe meglio dire nell’azione di coloro che operavano in Bene, proprio perché CB si desertificò a tal punto da diventare un condominio in cui diverse voci parlavano, discutevano, creavano e fluivano in un geniale e talentuoso intreccio di significati. Carmelo si è fabbricato e poi abbattuto, lasciandoci come prima certezza quella di esser diventato un classico, al pari di Shakespeare, Bufalino, Montaigne, Moravia, Eliot. E, per definizione, ciò che è classico non è mai di moda, né fuori di essa, non ha affini e non ha eguali, non ha tempo perché è eterno: a ben vedere, i classici non hanno contemporanei.

1. Il classico esonera dal contemporaneo
Cos’è classico? Come ebbe modo di definire Italo Calvino (1923-1985) in un articolo del 1981 per L’Espresso, «un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sè, ma continuamente se li scrolla di dosso»; è dunque un’opera che esercita una decisiva influenza sulla formazione dell’individuo. L’opera di CB, non per forza letteraria, rientra decisamente nella categoria dei classici. La sua vita, fattasi capolavoro con l’invenzione e la ricerca sulla macchina attoriale, è diventata classica essa stessa. Se pensiamo a Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), non fu lui a rendere l’Ermafrodito un capolavoro ma fu la statua a rendere capolavoro il Bernini, tant’è che egli ancor’oggi vive nell’opera tramandataci. Dunque anche Bene, come tutti i veri artisti, ha creato l’arte che va oltre di sé e che anzi rende arte l’artista stesso: nel caso specifico, CB ha reso possibile che la sua vita diventasse arte semplicemente non vivendola, riducendola, rifiutandola. Cronologicamente, fra tanti contemporanei di notevole interesse, Bene fu l’unico a diventare atemporale, offrendosi alle masse non come un grande artista del Novecento bensì come ars historica, ovvero come summa semantica di quanto è avvenuto da Adamo in poi. Riprendendo Calvino, possiamo senza dubbio confermare che «è classico tutto ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno». Verissimo, perché Bene fu sì uomo del suo tempo ma al contempo relegò la realtà politica, sociale e culturale di allora a qualcosa di già visto, già sentito, già conosciuto. Il suo uscire dalla storia e il suo essere da per sempre esistito lo pongono aristocraticamente su un livello superiore a qualsiasi individuo. In questa incessante riduzione del suo io, in questo svuotamento del concetto di soggetto, sta la realizzazione dell’Übermensch nietzschiano, ovvero nell’esenzione della volontà di potenza. Carmelo Bene sostituì Dio. Diventò Dio. Ed infine commise il più grave dei peccati, il deicidio, riducendosi/elevandosi all’Informe, come fosse un neonato, come l’Adorabile di Rimbaud, ben rappresentato da Pasolini in "Teorema" (1968) attraverso l’ospite che fa sesso con tutti i componenti della famiglia e li lascia sperduti e spaesati, addirittura catatonici, lui che viene dal deserto, lui puro e incomunicabile, lui eterno.

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