martedì 29 settembre 2015

"Dizionario dei luoghi comuni"


Le società occidentali, dato il grado di medializzazione, son diventate oggi terra di nessuno. Le opinioni cambiano, nascono nuove idee, vengono modernizzate vecchie recensioni, eppure sembra che a regnare sovrano sia esclusivamente il caos. Alla base di questa nuova Babilonia c’è internet, forse la più importante invenzione dell’umanità. Nell’era del web è lecito dire tutto e il contrario di tutto, tanto che sarebbe giusto parlare di un’epoca dei revisionismi. La titanica quantità di informazioni non ha migliorato le masse, non ha creato la tanto agognata specializzazione, non ha favorito alcuna democrazia intellettuale: semmai ha provocato un’illegittima autoreferenzialità. Nonostante internet venga esaltato da più parti per il suo ruolo nella Primavera Araba o nell’affaire Wikileaks, per l’integrazione di sistemi elettronici di cui è stata artefice e per la creazione di reti sociali come Facebook e Twitter, in realtà questo potentissimo mezzo di persuasione viene utilizzato come uno strumento di imposizione personale, familiare, locale, insomma quanto di più lontano dall’obiettivo sperato. Internet ha generato nuovi campanilismi, nuovi pregiudizi, nuovi odi e soprattutto ha accelerato la già pericolosa perdita di memoria dei popoli. Questo perseverare nella confusione di ruoli provocherà danni di lungo periodo oggi difficilmente quantificabili. Ed anche questo mio sproloquio non è che un granello di sabbia nell’odierno deserto ideologico. Ma a differenza degli altri blogger e di tutti i naviganti virtuali, sono assolutamente consapevole della mia inutilità. E della mia inadeguatezza. Totalmente diverso l’esito di Gustave Flaubert (1821-1880) - non poteva essere altrimenti! - che nell’incompleto "Dizionario dei luoghi comuni" (1881) racchiuse la stupidità umana del suo tempo, dimostrando con sprezzante ironia quanto confuso, mediocre e inappropriato fosse il chiacchiericcio d’ogni tempo e d’ogni dove. La sola avvertenza che mi permetto di avanzare all’ignaro lettore è di tralasciate la prefazione di Juan Rodolfo Wilcock (1919-1978): è un valente scrittore ma qui riesce a polemizzare e politicizzare anche il concetto stesso di luogo comune, in una inutile ortodossia del paradosso.

Gustave Flaubert (1980), Dizionario dei luoghi comuni - Album della Marchesa - Catalogo delle idee chic, trad. di J.R. Wilcock, Adelphi, Milano, pp. 132

giovedì 24 settembre 2015

"Anatomia dell'irrequietezza" e "Ritorno in Patagonia"


«Les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent pour partir» dice Charles Baudelaire (1821-1867) ne "Le voyage", poesia che chiude "I fiori del male" (1857). Il viaggio, più che uno spostamento fisico, è una delle metafore più antiche e profonde, e in qualsiasi cultura noi siamo la troviamo riproposta in testi sacri e sacrileghi. Bruce Chatwin (1940-1989) fu un viaggiatore lato sensu, poiché alla missione esplorativa accostava sempre un viaggio interiore, fatto di riferimenti e aneddoti letterari. L’istintività e l’impazienza sono i tratti peculiari della sua "Anatomia dell’irrequietezza", pubblicato nel 1996 sia in Inghilterra che in Italia, un libro in cui lo scrittore viaggiatore britannico riversa molte delle sue traversie e traversate ai quattro angoli del globo; dentro ci sono luoghi, persone, avventure che Chatwin ha visitato, conosciuto, vissuto. Da questo mare magnum emerge poi la tanto amata Patagonia, madrepatria di una razza leggendaria ormai estintasi: i patagoni. Proprio di questi giganti tribali, assieme a Paul Theroux (1941), Bruce Chatwin scriverà le sue impressioni nel "Ritorno in Patagonia" (1985), in stringate analisi storico-letterarie che, da Pigafetta a Darwin, passando per Melville, lasceranno a bocca aperta quel lettore che adora non tanto il viaggio geografico, quanto quello intellettuale.

Bruce Chatwin (1996), Anatomia dell’irrequietezza, trad. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano, pp. 223
Bruce Chatwin & Paul Theroux (1991), Ritorno in Patagonia, trad. di C. Morena, Adelphi, Milano, pp. 77


lunedì 21 settembre 2015

"Il rovescio della Conquista" e "La donna che fuggì a cavallo"


I conquistadores, di danni, ne hanno fatti parecchi nel cosiddetto Nuovo Mondo, sterminando, schiavizzando o derubando le popolazioni native. Se l’uomo bianco non s’è posto molti problemi a tali misfatti è perché, contestualizzando le scoperte geografiche del XV e XVI secolo, i nativi, dal giorno in cui Cristoforo Colombo mise piede alle Bahamas, dovevano presentarsi piuttosto arretrati in ogni ambito antropologico. Una qualche riscoperta della genuinità dei loro usi, costumi e religioni venne poi effettuata, a mo’ di indulgenza plenaria, dal mito dell’esotismo nel XVIII secolo. Lasciando da parte il cinismo, che tanto ci piace, va detto che, al contrario di buona parte della storiografia internazionale relativa alla conquista del Nuovo Mondo, il libro del messicano Miguel León-Portilla (1926), "Il rovescio della Conquista" (1959), si pone come uno strumento validissimo e importante per capire la conquista dal punto di vista dei vinti: dalle testimonianze azteche, maya e inca traiamo un’idea, scientificamente valida, di come l’indigeno abbia assistito alla distruzione del proprio mondo, in un atteggiamento prima giubilante e poi vendicativo. È lo stesso Atahualpa (1497-1533), glorioso re inca, a impressionarmi più d’ognuno: mentre lui si dilettava in guerre civili e massacri per la stabilizzazione del proprio regno, gli spagnoli, approdati in Perù, venivano accolti come esseri soprannaturali, proprio perché nei miti religiosi di quelle genti Dio sarebbe giunto dagli oceani. Tra schermaglie, battaglie e giochi di potere, finì che il fiero sovrano Atahualpa fu processato e giustiziato dai conquistadores, tanto che da lì in poi, per le popolazioni che abitavano il continente sudamericano prima e nordamericano poi, fu tutta una discesa negli inferi. Il succitato spirito vendicativo dei nativi è ben presente in un altro libro, totalmente diverso da quello di León-Portilla. "La donna che fuggì a cavallo" (1928) di D.H. Lawrence (1885-1930) è la storia di una moglie che, stanca del marito e dell’occidente, raggiunge la tribù dei Chilchui per donarsi alle loro costumanze e ai loro dèi. Che fine potrà fare una donna europea tra aborigeni che imputano alla razza bianca problemi astronomici, religiosi e politici? Facile intuirlo.

Miguel León-Portilla (1974), Il rovescio della Conquista. Testimonianze azteche, maya e inca, trad. di G. Segre Giorgi & G. Lapasini, Adelphi, Milano, pp. 186
D.H. Lawrence (2001), La donna che fuggì a cavallo, trad. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano, pp. 83


mercoledì 16 settembre 2015

"Il Regno"


È un dato di fatto che gli islamisti oramai uccidono anche in Europa. Si organizzano, fanno proseliti e attentano alle libertà occidentali. Al di là della perdita di vite e del modo in cui vengono strappate, quello che più infastidisce, dopo i massacri del Charlie Hebdo, è l’assenza di intellettuali, in questa radura spirituale che è diventata l’Europa, in grado di fornire letture appropriate dell’epoca che stiamo vivendo. Oggi, grazie alla rinnovata forza dei mezzi di comunicazione, siamo tutti solidali con le vittime e severi con i carnefici, ma non andiamo oltre la presa di coscienza, o di posizione. Manca totalmente in Francia, come in Germania, in Italia e nel Regno Unito, una classe di filosofi, sociologi e statisti capace di spiegarci questa deriva 2.0 che ha portato l’Islam più radicale allo scontro con l’occidente. E di spiegare perché ci stia riuscendo tanto bene. Sostituire l’analisi sociologica con la vana pietà, la speculazione filosofica con lo shock da salotto, è un errore in cui cadiamo tutti. Ma è un errore a cui devono sottrarsi gli intellettuali, sui quali grava la responsabilità di prevedere il corso degli eventi e di consigliare e fornire soluzioni alla classe dirigente. L’assenza di questi ha fatto sì che il problema dell’islamismo in Europa si tramutasse in sciovinismo. I partiti xenofobi abbondano in tutto il continente e i pochi cervelli rimasti parteggiano per due fazioni opposte: da un lato si comincia ad entrare nell’ottica di una certa rigidità verso l’immigrazione, dall’altro si continua a vagheggiare una sterile autocritica su come le politiche d’integrazione si siano rivelate inefficaci. Non essendo un intellettuale, posso azzardare un’ipotesi su tutte, che parte da un’analisi esterno/interno. Dal punto di vista esterno, ovvero per quanto riguarda l’influenza esercitata da culture diverse dalla nostra, individuo nel fenomeno della ibridazione - con speciale riferimento ai paesi del cosiddetto terzo mondo - la principale causa di quello stravolgimento di valori che sta portando l’occidente a rivedere le sue conquiste in fatto di libertà e diritti. I paesi musulmani, giunti con estremo ritardo nella modernità, hanno dovuto frettolosamente adeguarsi ai sistemi imperanti (nuove tecnologie, globalizzazione, economia di mercato ecc.) col risultato di aver digerito male l’intero processo. Un tempo si sarebbe parlato di riflusso, oggi si può chiaramente parlare di indigestione. Dal lato eminentemente interno, le stragi di Parigi mostrano un allarmante problema di integrazione non degli immigrati, bensì delle seconde e terze generazioni di immigrati, ovvero di cittadini cresciuti e pasciuti all’interno del nuovo tessuto sociale. In alcuni casi, i figli, anziché emanciparsi definitivamente in favore delle libertà occidentali, son tornati alle tradizioni della cultura genitrice, radicalizzando quegli aspetti che maggiormente creano un’identità altra rispetto alla società in cui vivono. E in un mondo atomizzato, in balia delle più disparate ideologie, questa radicalizzazione può facilmente venir assorbita, nel caso particolare, dalla follia jihadista. L’unico illuminante tentativo che ho letto con gusto è stato quello messo in piedi da Emmanuel Carrère (1957) ne "Il Regno", ma forse anche la sua analisi va a parare nell’alibi del nichilismo, travisando il senso di quella rivoluzione morale, poiché parte dall’assunto secondo cui la nostra sia già una civiltà pienamente nichilista. Son passati più di 2.000 anni dall’ultimo dio. È giunta l’ora di crearne uno nuovo.

Emmanuel Carrère (2015), Il Regno, trad. di F. Bergamasco, Adelphi, Milano, pp. 428

lunedì 14 settembre 2015

"Vita di Enrico Ibsen"


Alberto Savinio (1891-1952) immagina il femminismo come un traforo del Sempione, ovvero come una montagna che venga scavata da versanti opposti da due correnti uguali e convergenti - le donne femministe e gli uomini femministi - e che questi infine si incontrino a metà strada, nel centro della montagna stessa. Nel 1943 il femminismo saviniano non è quello sessantottino e post-sessantottino, non è la mera ribellione del corpo donnesco a nuove e più aperte abitudini sessuali, non proviene dagli ambienti omosessuali e non c’entra assolutamente nulla con le rivendicazioni sessuali di qualche donna borderline. Alberto Savinio sostiene che il femminismo è un sentimento che appartiene all’uomo - nell’accezione del Mensch - poiché da una parte il maschio deve ridurre la propria quota di tirannia e di vassallaggio nei confronti della donna, e dall’altra la femmina deve rompere quello schiavismo che la relega a semplice soddisfacimento materiale dell’uomo. Spesso mi accusano di essere maschilista quando biasimo la donna facile, l’incontro di una sera, la prestazione sessuale svogliata e superficiale; chi non mi ritiene maschilista, al contrario, mi etichetta come un patetico romantico. In realtà nutro un gran rispetto per la Donna, tanto da non sopportare di vederla all’attuale stato animalesco. In quello saviniano ho ritrovato dunque il mio femminismo, ovvero distruggere il maschio che è in me, senza per questo intaccare la virilità. La domanda che sorge spontanea è: ma cosa c’entra il femminismo con la "Vita di Enrico Ibsen"? Solo leggendo il libro, potrete capire le iperboli mentali di Savinio.

Alberto Savinio (1979), Vita di Enrico Ibsen, Adelphi, Milano, pp. 90

giovedì 10 settembre 2015

"Storia di san Cipriano" e "I detti di Rābi'a"


L’ἄσκησις (askesis) rappresenta l’esercizio autarchico, l’addestramento disciplinato, nel nostro caso riferito alla sfera spirituale e/o religiosa. Nel catalogo adelphiano troviamo due figure di asceti, una cristiana, l’altra islamica: Tascio Cecilio Cipriano (210-258), vescovo cartaginese convertitosi al cristanesimo dopo aver profondamente operato nel mondo pagano, e Rābi’a al-‘Adawiyya (713-801), liberta musulmana considerata una delle più importanti figure del sufismo. Entrambi questi santi arabi si son lasciati dietro - com’era lecito attendersi - uno sciame di leggende, superstizioni e raccomandazioni. Cipriano ci viene raccontato dall’imperatrice Eudocia Augusta (401-460) come un pagano esaltato, esperto in pratiche diaboliche e per questo vicinissimo a Satana, la cui magica conversione avverrà per mano di una santa donna, Giustina. Potete ben capire come una leggenda costruita sugli elementi del diavolo come peccato, del pentimento come ravvedimento e della fede per mezzo di una donna, abbia provocato una vasta eco nel mondo barbaro: ed è proprio così che ci appare il misticismo di Cipriano. D’altro canto abbiamo Rābi’a, i cui detti sono stati tradotti per la prima volta in italiano da Caterina Valdrè e comprendono le fonti più disparate (persino vaticane). Nell’ascesi di questa santa sufi vi sono sorprendenti elementi di comunanza col cristianesimo, anche se un’affermazione del genere rischia di passare, alle orecchie degli islamisti (studiosi di islam), per una vera e propria bestemmia. Ma il sufismo, che Alessandro Bausani (1921-1988) riteneva colpevole di aver causato il declino dell’islam, rappresenta il lato più bello della religione musulmana, in quanto ne è la sua emanazione filosofica. Rābi’a ama Dio e al contempo Ne è terrorizzata: nella sua vita non c’è nient’altro all’infuori di Lui tanto che la morte sarà l'agognato ritorno presso il Signore. Al pari, Cipriano vivrà la sua fede cristiana con altrettanta enfasi, tanto da portarlo al martirio, in un mondo talmente pagano dove il solo nominare Dio equivaleva ad un atto di estremo, sfavillante coraggio.

Eudocia Augusta (2006), Storia di san Cipriano, a cura di C. Bevegni, Adelphi, Milano, pp. 207
Caterina Valdrè (a cura di) (1979), I detti di Rābi’a, Adelphi, Milano, pp. 102


martedì 8 settembre 2015

"Domicilio sconosciuto" e "Beduina"


La giovinezza scapestrata è spesso il sintomo più evidente di una fulgida intelligenza. Bruciare le tappe, come si suol dire, non è sempre un atto semplicemente provocatorio; il più delle volte rappresenta un’insofferenza alla propria età anagrafica e al proprio corpo, come se ci si sentisse davvero maturi - semplicemente più vecchi - per affrontare tutte le esperienze della vita senza restarne particolarmente traviati. È questo il caso di due giovani scrittrici, la serba Natasha Radojčić (1966) e la statunitense Alicia Erian (1967), praticamente coetanee, che raccontano le storie, decisamente autobiografiche, di due adolescenti ribelli e curiose in emisferi geografici molto diversi, cittadine del mondo perché nate in famiglie multirazziali o cosmopolite. Come dicevamo in apertura, Saša e Jasira, le due protagoniste, bruciano letteralmente le tappe della propria adolescenza: sono ragazze che crescono e si educano da sé, che imparano a relazionarsi col mondo in totale autonomia, che sperperano gli anni dell’innocenza e dell’ingenuità con orgoglio e un pizzico di narcisismo. "Domiclio sconosciuto" è ambientato tra la Jugoslavia titina e post-titina, la Grecia, New York e Cuba; "Beduina" tutto in America, tra la città natale della Erian, Syracuse, e Houston, baricentro della NASA. Sono entrambe delle narrazioni filmiche, sceneggiature bell’e pronte, storie complete nei dettagli, nei posti e nelle caratterizzazioni, le trame apertissime a qualsiasi compromesso di regia. Le due scrittrici hanno uno stile impressionante per la facilità con cui si lasciano leggere, senza ermetismi o astruserie letterarie. La Radojčić è leggermente più brutale nell’esposizione, la Erian decisamente più delicata; ma in conclusione ci permettono entrambe un’appassionante sbirciata nell’universo femminile, pre- e postadolescenziale, tra droghe pesanti e sesso illegale, il tutto senza tralasciare gli scenari politici e geopolitici del nostro passato recente: Fidel Castro, George H.W. Bush, Papandreu, la guerra del Golfo, Saddam Hussein, le Guerre jugoslave, Tito. Insomma, un mondo che freme, in totale ebollizione, proprio come i giovani corpi di Saša e Jasira.

Natasha Radojčić (2004), Domicilio sconosciuto, trad. di E. Dal Pra, Adelphi, Milano, pp. 185
Alicia Erian (2005), Beduina, trad. di G. Oneto, Adelphi, Milano, pp. 349


venerdì 4 settembre 2015

"Dal libro dei pensieri"


L’Italia è un Paese degradato, degenerato, deteriorato, forse deceduto. I parametri eziologici della sua decadenza sono da rinvenire nella lentissima ma perniciosa perdita di produzione intellettuale che ha avuto inizio nell’immediato dopoguerra per mano del consumismo e che si è consumata in quest’ultimo quarto di secolo coll’affermarsi sempre meno latente della borghesia. Quella che, rubando qualcosa a Indro Montanelli (1909-2001), definisco mediocrità borghese è infatti alla radice della questione intellettuale, questione aristocratica per definizione se contempla le problematiche inerenti l’attribuzione di significati all’esistenza umana. Un popolo che sostituisce la ricerca della (in)felicità con la rincorsa alla ricchezza materiale va veloce verso il tramonto. La richiesta di pari opportunità da parte delle masse - che a livello microscopico sembra essere un sacrosanto diritto - è in realtà una grave tragedia, tanto che la società civile, ostaggio di questo istituto giuridico, è via via diventata una terra di nessuno. La possibilità per tutti di accedere al grado più alto di istruzione, il sogno di poter rincorrere liberamente le proprie aspirazioni, il secco rifiuto delle condizioni di partenza considerate troppo limitanti hanno concorso all’odierna situazione di disfatta culturale. Se poi utilizziamo la politica come metro di giudizio per le nostre affermazioni vedremo che la teoria aristocratica sulla mediocrità borghese come causa della decadenza dimostra tutta la sua infallibile evidenza. Dal momento che ogni cittadino può sostanzialmente rappresentare le istituzioni, è stata data facoltà formale a chiunque - senza alcun filtro culturale, morale o etico - di partecipare attivamente al governo dello stato. Ma uno stato non può essere rappresentato da chiunque, poiché altrimenti sarebbe uno stato qualunque: un paese all’altezza del suo passato necessita invece degli elementi migliori partoriti dalla sua società civile. Col principio egualitario si è quindi compromessa la selezione di uomini di stato a vantaggio dell’uomo qualunque. Così è pure in tutti gli altri rami del nostro vivere in società. I grandi pensatori sono perlopiù aristocratici in quanto esprimono un’idea che li eleva dal sentire generale, un’idea che non conosce tempo, che anzi supera la contemporaneità per collocarsi nell’indefinitezza dell’eternità. È su questi pensieri che vado con la mente a Benedetto Croce (1866-1952), forse il più grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, per via della trasversalità dei suoi interessi, un uomo in grado di discettare d’amore, politica, d’arte o religione. Poi guardo l’Italia di oggi, che da quando ha smesso di perpetuarsi, è tornata ad essere proprio una nazione di uomini qualunque. Poiché nulla muore nel posto sbagliato, speriamo che prima o poi ogni cosa torni al suo posto.

Benedetto Croce (2002), Dal libro dei pensieri, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano, pp. 225

mercoledì 2 settembre 2015

"Una storia semplice" e "Ritorno a Baraule"


Due scrittori isolani: uno siciliano, l’altro sardo, uno di chiara fama, l’altro in procinto di affermarsi. Due storie truci, entrambe incentrate su un misfatto, contraddistinte da cervellotiche indagini dall’esito incerto. Leonardo Sciascia (1921-1989) e Salvatore Niffoi (1950), distanti per stile letterario, epoca e provenienza geografica, sono accomunati proprio dall’indole isolana che, per definizione, porta con sé solitudine, diffidenza, senso dell’effimero. È questo l’humus di "Una storia semplice" e "Ritorno a Baraule", due libri che vi terranno incollati alle loro pagine senza darvi tregua ma, qualora decideste di non leggerli tutti d’un fiato, riempiranno i vostri pensieri quotidiani di domande e aneddoti, rendendovi partecipi delle ricerche dei due protagonisti, un brigadiere fedele all’ideale della giustizia e un chirurgo in pensione malato di cancro. In questi due libri, oltre ad orrendi flash d’una civiltà disumana, vengono offerti gli odori della Sicilia e della Sardegna, le tradizioni secolari impantanatesi nella religione cattolica, il mare pescoso e l’arida montagna. In entrambi i racconti sono ormai lontane le reminiscenze di Pirandello e della Deledda: ogni dettaglio ha un aspetto torvo, i personaggi arcigni, la differenza è semmai nel finale. Quello di Sciascia sarà di stampo prettamente poliziesco, con sottili venature di denuncia sociale; quello di Niffoi si perderà in un labile gioco di sogni ed enigmi.

Leonardo Sciascia (1989), Una storia semplice, Adelphi, Milano, pp. 66
Salvatore Niffoi (2007), Ritorno a Baraule, Adelphi, Milano, pp. 199