martedì 31 marzo 2015

"Tre sentieri per il lago"


Cinque racconti, cinque donne, cinque inadeguatezze. Le donne descritte dalla validissima Ingeborg Bachmann (1926-1973), musa ispiratrice di Roberto Calasso (1941), sono tutte creature impaurite dalla vita, operanti in una cornice europea che tocca Vienna, Londra, Parigi e l’Italia, patrie d’elezione della stessa autrice. C’è Nadja, una traduttrice per cui il mondo sta nella simultanea trasformazione delle parole e, laddove questa si fa difficile, altrettanto ardua si fa la sua vita sentimentale; c’è la frivola e pelandrona Beatrix, che vive di orpelli estetici, la cui vita superficiale sfocerà in uno psicodramma; poi c’è Miranda, quasi cieca, che vede svanire il suo grande amore per rintanarsi nell’estrema miopia, fuga dalla vita in piena regola; c’è la vecchia signora Jordan, mamma sola e abbandonata dal figlio psichiatra, che riceve gli ossequi di Franziska, ennesima nuora, ma vive in un immotivato terrore del figlio; infine c’è Elisabeth, giornalista e fotografa, la più battagliera tra le figure femminili, che in un lungo stream of consciousness rammenta la sua vita fatta di ideali, stante lo sradicamento irrisolto da Clanforte, città natale della stessa Bachmann, che dunque fa supporre la perfetta collimazione tra personaggio fittizio e autore reale. Ingeborg Bachmann utilizza registri stilistici diversi per dipanare questi cinque microcosmi, alternando una gran prosa alla narrazione secca, giungendo persino alla poesia ermetica. "Tre sentieri per il lago" (1972) è un libro informale, nell’accezione avanguardistica del termine, poiché descrive un’umanità che non è più possibile descrivere con gli strumenti utilizzati in precedenza: le maggiori preoccupazioni dell’uomo occidentale del dopoguerra sono diventate postmaterialistiche, ovvero non attengono più alla sopravvivenza e all’istinto ma, innanzitutto, alla difficoltà di relazionarsi col mondo circostante. La paura, in questa fetta di mondo, in questo universo parallelo, appare davvero il sentimento più diffuso e incontrastabile.

Ingeborg Bachmann (1986), Tre sentieri per il lago e altri racconti, trad. di A. Pandolfi, Adelphi, Milano, pp. 233


giovedì 26 marzo 2015

"Divorzio a Buda" e "Le braci"


Sándor Márai (1900-1989) è un romanziere di gran classe, ancor oggi non apprezzato appieno dal grande pubblico. Testimone della disgregazione dell’Impero austro-ungarico, poi esule slovacco negli Stati Uniti e quindi fortemente critico verso il socialismo reale ungherese - che pure rappresentava uno sprazzo di luce all’interno del plumbeo firmamento del Patto di Varsavia - Márai ha sempre rivendicato, implicitamente in tutta la sua opera, il ruolo di artista borghese, al pari di Georges Simenon (1903-1989), rappresentanti d’una borghesia finemente autocritica, quindi tutt’altro che piccola. Nel "Divorzio a Buda" (1935), ambientato proprio nella capitale magiara, tra i vicoletti della città vecchia di Buda e i mondani boulevard di Pest, l’autore racconta l’irruzione dell’elemento imprevisto nella vita di un irreprensibile magistrato. Buona parte del libro è spesa nella descrizione dei personaggi, dalle radici anagrafiche alla quotidianità, facendo emergere tutta la giustezza e la fragilità della società borghese, fondata proprio sulla famiglia tradizionale e sull’onesto lavoro. L’orgogliosa proclamazione della borghesia e, al contempo, l’accanita disamina delle manchevolezze intellettuali di questa classe, rappresentano forse la sostanza del pensiero di Márai; e questa dicotomia è tragicamente rinvenibile nelle pagine del suo diario, "L’ultimo dono" (Adelphi 2009). Ma il nodo della vicenda qui narrata verrà sciolto solo nelle ultime cinquanta pagine, in un climax dialogico che vede contrapposti il protagonista, Kristóf Kőmíves il giudice, e il suo amico d’infanzia Imre Greiner, intenti di notte a ripercorrere tutti i crocevia che han portato la vita sentimentale di quest’ultimo al naufragio e al delitto. La struttura del romanzo precede a piè pari quella del capolavoro "Le braci" (1942), tanto che i giudizi più sprezzanti mossi al “Divorzio a Buda” lo inseriscono in una cornice preparatoria al più fortunato romanzo del 1942. La verità è che se Sándor Márai non avesse dato alle stampe "Le braci", sarebbe questo il romanzo culminante della sua carriera. Resta tuttavia intatta la lucentezza dello stile compositivo di questo autore mitteleuropeo, quasi parossistico nell’analisi psicologica e antropologica dei suoi personaggi, siano essi poveri o ricchi, vittime o carnefici, umili o nobili, amati o traditi, e dal "Divorzio a Buda" la forma familiare emerge come la più preminente e delicata cellula di convivenza civile, perlomeno l’unica in grado di assicurare un barlume di futuro alla società.

Sándor Márai (2002), Divorzio a Buda, trad. di L. Sgarioto, Adelphi, Milano, pp. 200
Sándor Márai (1998), Le braci, trad. di M. D'Alessandro, Adelphi, Milano, pp. 181


martedì 24 marzo 2015

"Pedigree" e "Lettera a mia madre"


Leggendo "Pedigree" di Georges Simenon (1903-1989), tra gli ultimi e più complessi romanzi del narratore belga, viene alla mente il drastico cambiamento operato dall’industrializzazione sulle genti europee di inizio Novecento. Affiorano persino impressioni pasoliniane quando Simenon ci descrive una Liegi ancora scandita dalle piccole vicende di commercianti e poveri cristi, una città preda delle ideologie, in attesa della Grande Guerra, con gli anarchici che lasciano volantini e fanno scoppiare bombe. Quella rottura che trascinò l’Italia dall’era contadina nell’epoca urbana borghese la ritroviamo proprio in "Pedigree", seppur in salsa fiamminga. I protagonisti della storia, Élise e Désiré, sono due sposi molto diversi tra loro, la prima permalosa, orgogliosa e nevrastenica, il secondo buono ma poco senziente. Al di là della trama del romanzo - in realtà è un’autobiografia, dato che i protagonisti sono i veri genitori di Simenon e una più approfondita conoscenza di Élise/Henriette la si può fare solo leggendo la toccante "Lettera a mia madre" (Adelphi 1985) - ciò che colpisce sta proprio nella capacità dell’autore di descrivere i sottili stati d’animo della gente comune, in una cornice scenografica simile a quella delle nostre città negli anni ’10. Così anche Pier Paolo Pasolini (1922-1975), quando parlava di rottura dei ritmi arcaici, intendeva proprio quella trasfigurazione consumistica, causa principale della deturpazione morale ed estetica dell’Italia. Ciò che rende debole la visione pasoliniana sta nel suo convincimento che questa sfasatura sia avvenuta d’incanto, come se si fosse passati da uno stato iperboreo ad uno perverso. Diverso è il sentore simenoniano, per il quale non v’è giudizio morale, ma una semplice constatazione dell’aspirazione personale di ognuno a migliorare il benessere della propria famiglia. È così che vengono alla luce le invidie e le antipatie parentali, gli odi dettati dalla violenza casalinga, l’alcolismo, la vanità, le bugie, le fisime. Leggendo questo libro sembra di fare un tuffo in un’epoca per niente romantica, a differenza del credo pasoliniano. Certamente un’epoca di grandi idee e grandi uomini, ma irrimediabilmente abitata dal rancore e dalla miseria, se non addirittura dalla povertà. Questo è solo un impertinente raffronto fra due grandi intellettuali del Novecento, nulla di più. Eppure tra le righe di "Pedigree" c’è qualcosa di più d’una semplice storia di vita; come in tutti i capolavori c’è un metasignificato nascosto agli occhi dei lettori svogliati, ma luminosissimo agli animi gentili. Pasolini e Simenon, noto ai più per le avventure del commissario Maigret, sono cronologicamente e ideologicamente distanti ma accomunati dall’indagine sociologica. In pratica lontanissimi, quasi vicini.

Georges Simenon (1987), Pedigree, trad. di G. Bongiovanni, Adelphi, Milano, pp. 554
Georges Simenon (1985), Lettera a mia madre, a cura di G. Mariotti, Adelphi, Milano, pp. 97


venerdì 20 marzo 2015

"Dialogo teologico"


Il compianto Manlio Sgalambro (1924-2014), fine filosofo, si è occupato spesso di teologia, pubblicando diverse opere per i tipi di Adelphi. Sta di fatto che i più lo conoscono per l’assidua collaborazione con l’altrettanto signorile Franco Battiato (1945) che è andata avanti dal 1995. Leggendo il "Dialogo teologico" ogni estimatore del musicista siciliano sarà portato a pensare ad Alfred Kastler (1902-1984), fisico francese che vinse il Premio Nobel nel 1966 per la scoperta e lo sviluppo di metodi ottici per lo studio della risonanza hertziana negli atomi, studi che portarono all’effettiva realizzazione dei laser. Uno scienziato di riconosciuta fama e, al pari di tutti i scientifisti, ateo. Eppure il suo ateismo in realtà fu un mero defilamento dalla discussione circa l’esistenza di Dio. Difatti, quando gli venne chiesto se il caso fosse all’origine dell’universo che studiava così a fondo, Kastler rispose con un intervento tanto magnifico quanto illuminante. Lo riportiamo interamente: «Supponiamo che nel corso di uno dei prossimi voli lunari venga esplorata la faccia sconosciuta della Luna, quella che ci è opposta e che non vediamo mai, ma che gli astronauti possono raggiungere. Fino ad oggi, essi sono sempre atterrati sulla parte visibile dalla Terra perché le comunicazioni via radio rimangono possibili, mentre non lo sono più quando ci si trova sull’altra faccia. Supponiamo che essi abbiano la sorpresa di scoprire una fabbrica automatica che produce alluminio: esistono attualmente sulla Terra fabbriche completamente automatiche. Essi vedrebbero da un lato delle pale che scavano il suolo e raccolgono l’allumina; dall'altro le barre di alluminio che ne escono. Essi vi troverebbero apparecchiature tipiche della fisica, processi di elettrolisi, poiché l'alluminio viene prodotto mediante elettrolisi di una soluzione di allumina nella criolina. In altre parole, dopo aver esaminato questa fabbrica, essi constaterebbero solo il verificarsi di normali fenomeni fisici perfettamente spiegabili con le leggi della causalità. Essi ne dovrebbero concludere che il caso ha creato tale fabbrica, oppure che degli esseri intelligenti sono discesi sulla Luna prima di essi e l’hanno costruita? Il buon senso, prima ancora che elementari nozioni di filosofia, farebbe loro dire che la fabbrica non si costruisce per caso. Nessuno, solo che avesse un po’ di sale in zucca, potrebbe attribuire al caso la creazione di una fabbrica automatica sulla Luna. Ebbene, in un essere vivente troviamo un sistema infinitamente più complesso di una fabbrica automatica. Voler ammettere che il caso ha creato tale essere mi sembra assurdo. Se esiste un programma, non posso ammettere programma senza programmatore, del quale però non voglio costruirmi un’immagine». In un’epoca tutta giocata sullo sterile dibattito tra creazionismo cristiano ed evoluzionismo darwiniano, fazioni che hanno raggiunto un assurdo fanatismo e che si confutano a vicenda tirando in ballo visioni letterali della Bibbia e de "L’origine delle specie" (1859), le proposizioni di Kastler, e quelle di Sgalambro ancor di più, instillano invece tutt’altra chiarezza nel confronto teologico. Anche se la diafana logica kastleriana non dimostra alcunché circa l’esistenza di Dio, accerta perlomeno l’inesistenza dell’ateismo in quanto tale. Non si può confermare o confutare Dio; al contrario, si può ampiamente deridere l’ateo. Rimane in piedi un’unica questione: ci interessa davvero Dio?

Manlio Sgalambro (1993), Dialogo teologico, Adelphi, Milano, pp. 90

martedì 17 marzo 2015

"Sommario di decomposizione"


È odioso il modo con cui alcuni moderni sociologi, giornalisti e analisti dell’attualità definiscono le nuove generazioni, usando il termine nichilismo per tutta un’altra cosa. Quando si parla dell’attuale civiltà si deve fare molta attenzione alla grossa differenza che intercorre tra il nil e il nihil, il primo contrazione del secondo. La civiltà occidentale, irreligiosa, satura di piaceri, viziata ben oltre il benessere, gonfia di false aspettative e speranze, è una civiltà del nil, non del nihil. Ogni desiderio è portato al suo innaturale sfiancamento. Gli uomini e le donne che la abitano hanno smesso il proprio ruolo di esseri pensanti - anzi di attori, derivando da agere - per indossare la torva maschera della décadence. Inutile aggiungere come il nichilismo - quella genuina ed aristocratica tendenza all’annullamento del proprio sé di cui stiamo ancora aspettando l’avvento in società - profetizzi il Nulla, piuttosto del niente. Il niente è un vuoto, un’assenza, una svogliatezza, una negligenza, una lenta e maleodorante decomposizione; esso è mediocre, arido e desertico. Molto diversa la questione sul Nulla. Nel libero spirito di Emil Cioran (1911-1995) i concetti di Nulla e Tutto si equivalgono, collimano perfettamente, hanno la medesima valenza ben oltre lo svuotamento nietzschiano della volontà di potenza. E poi la sofferenza, che attanaglia l’intero corso di ogni esistenza: subirla significa tribolare, superarla non vivere. Cioran invece ci si crogiola nella sofferenza, il suo è un animo per niente ozioso o rinsecchito, né tantomeno avaro; la sua condizione di assoluta libertà è confermata dal nulla in cui crede. Che è poi lo stesso nulla di Dio. Il sé non ha più una storia precedente che lo condiziona, ne è anzi slegato, ne è fabbro. Il nichilismo è forse questo: la giubilante parata dell’homo faber, inutilmente portata ai destini della cultura dalla figura di Giordano Bruno. Dunque il Nulla nichilistico non è una prigionia ma una liberazione, non un asservimento ma un’affrancamento dalla circostante obliquità del reale, del visibile. Ingannevole s’è rivelato il mito della materia. Nel "Sommario di decomposizione" (1949), praticamente ignorato in patria, gli individui sono rimasti gli stessi di sempre: codardi ed impauriti di fronte alla vita, immorali - non amorali - verso la morte, invigliacchiti ancor di più dallo sfilacciamento delle religioni secolari che stanno ancora cercando il modo di sopravvivere alla rutilante modernità, come una patetica mosca cieca. Ma non è ridicolo che ancor oggi Dio debba cercare compromessi con la contemporaneità? Non dovrebbe esser classico il Suo pensiero? Trovare una risposta a questa domanda equivale forse a preconizzare la vera nascita del nichilismo. E forse, nel medesimo istante, la sua fine. Il Novecento doveva in fondo essere il secolo del nichilismo. Qualcuno ci sperava, qualcun altro no, fatto sta che il nichilismo non s’è visto. Lo si è studiato, analizzato, approfondito, frammischiato, ma non si è trasformato in vita. Al suo posto il niente. Niente di niente.

E.M. Cioran (1996), Sommario di decomposizione, trad. di M.A. Rigoni & T. Turolla, Adelphi, Milano, pp. 229


mercoledì 4 marzo 2015

"Enten-Eller" e "Scritti su Wagner"


Ciò che Richard Wagner (1813-1883) è stato per Friedrich Nietzsche (1844-1900), Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) lo è stato per Søren Kierkegaard (1813-1855). Ispirazione, modello, finanche alter ego. I primi due nomi godono ancor oggi, troppo spesso, di una tetra fama, dovuta all’influenza - tanto inconsapevole quanto deviata - che si dice abbiano esercitato sulla formazione del nazionalsocialismo. I secondi sono invece osannati dai più, senza che in realtà vengano realmente conosciuti ed apprezzati riguardo l’organicità delle rispettive opere. Fatto sta che non c’è Nietzsche senza Kierkegaard e non c’è Wagner senza Mozart. Nella grande e poco nota opera del filosofo danese "Enten-Eller" (1843) la validità del doppio pensiero diventa qualcosa di assolutamente preponderante e, ufficialmente per la prima volta, diventa argomento di speculazione filosofica. Kierkegaard immagina infatti una corrispondenza epistolare tra A e B sui temi dell’esistenzialismo, uno di quegli argomenti, allora nuovissimi, che Mozart aveva indagato in alcuni dei suoi lavori, il "Don Giovanni" (1787) su tutti. Nel libro di Kierkegaard il pensatore A, in forma aforistica, semina i germi del nichilismo nietzschiano, senza però utilizzare quei toni incendiari caratteristici del grande filosofo tedesco. Il pensatore B, d’altronde, fa una trattazione organizzata e spesso arzigogolata sul concetto di sensualità e di come questa influenzi arte, etica ed estetica. "Enten-Eller" - in origine intitolato "Aut aut" - è onestamente molto interessante, soprattutto perché si offre con un registro volutamente leggero e canzonatorio, come se Kierkegaard avesse inizialmente aperto la strada al fantasma del nichilismo per poi risolvere la questione dell’esistenza scoppiando in una fragorosa risata. La lucida follia dell’anticristo Nietzsche è qui accettata e curata, una trentina d’anni prima che il filosofo di Lützen si ammalasse di troppa vita.

Søren Kierkegaard (1976), Enten-Eller. Tomo primo, a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano, pp. 229
Friedrich Nietzsche (1979), Scritti su Wagner. Richard Wagner a Bayreuth - Il caso Wagner - Nietzsche contra Wagner, trad. di S. Giametta & F. Masini, Adelphi, Milano, pp. 275


lunedì 2 marzo 2015

"Vite immaginarie"


Grande mistificatore, sognatore, abile falsario, inventore di genio, manipolatore nonché amante della bibliografia più illustre: Marcel Schwob (1867-1905), misconosciuto autore adelphiano, è uno di quei rari casi letterari in cui il genere agiografico sposa l’elemento irrazionale, tanto caro alla casa editrice milanese, che nell’ultimo mezzo secolo ne ha fatto un baluardo in termini di forma. Le "Vite immaginarie" (1896) di Schwob, di primo acchito, ricordano le "Vite parallele" di Plutarco, ma in realtà sono tutta un’altra cosa. Lo scrittore francese tratteggia tanto le esistenze di grandi personaggi dell’antichità (Empedocle, Petronio, Lucrezio, Clodia ecc.) e della prima modernità (Cecco Angiolieri, Paolo Uccello, Nicolas Loyseleur, Pocahontas ecc.) come quelle di anonime figure fuori dal tempo e dallo spazio, in un’esegesi laica che annette ad ogni vita raccontata capacità straordinarie, rituali, taumaturgiche. Per ogni personaggio si pone un dilemma riguardante la bontà della sua opera: in altre parole, le gesta degli uomini vanno giudicate per quel che realmente producono o contestualizzandole nella combinazione di virtù e peccati cui giocoforza sottostanno? Il dilemma sembra risolversi solo attraverso il teorema adiabatico. C’è poi un’altra assonanza che salta all’orecchio dopo aver letto le "Vite immaginarie" ed è quella con la "Visita a Rousseau e a Voltaire" (Adelphi 1973) di James Boswell (1740-1795), allorquando questi dimostra inconsapevolmente che la frequentazione dei migliori non implica direttamente un miglioramento della propria persona e che, anzi, può rivelarsi un’attività vanesia, illusoria e piuttosto onanistica. Marcel Schwob evita questo parossismo non raccontando le vite, bensì inventandole di sana pianta, accogliendo nelle sue descrizioni soltanto quei frammenti veritieri e luminosi che ab absurdo sostengono l’agiografia. Alla fine del libro troviamo la biografia dello stesso Schwob, ad opera della curatrice Fleur Jaeggy (1940), smagliante talento svizzero della parola poetata, che dimostra come l’infondatezza dell’operazione schwobiana, effettuata tra il XIX e il XX secolo, sia un iridescente caso di mitologia, genere letterario scomparso dal sostrato europeo parecchi secoli or sono.

Marcel Schwob (1972), Vite immaginarie, a cura di F. Jaeggy, Adelphi, Milano, pp. 210