mercoledì 23 dicembre 2015

"La nascita della tragedia" e "Anatol"


Da un lato c’è Friedrich Nietzsche (1844-1900), dall’altro Manlio Sgalambro (1924-2014). Utilizzeremo questi due filosofi per immortalare i secoli che rispettivamente rappresentano. Nietzsche, uomo dell’Ottocento, spianò la strada al secolo breve; il novecentesco Sgalambro, invece, preparò l’avvento del terzo millennio, del tutto simile al secolo precedente, almeno nei timori e nelle ossessioni. Il Nietzsche che scrive "La nascita della tragedia" (1876) non è ancora rinsavito/impazzito: il suo punto fermo sta nella dicotomia tra l’apollineo e il dionisiaco, un dualismo che ha contraddistinto tutta la critica accademica sul filosofo tedesco per molti decenni e che ancor oggi è dura a morire. Il Friedrich Nietsche anticristo è tuttora bollato, spesso, come un refuso mentale, una deriva ideologica della filosofia pura, un errore sul cammino speculativo della saggezza filosofica. Sgalambro, d’altronde, è il filosofo senza scuola, quello che ha abdicato agli strumenti e al metodo accademici. Tuttavia presentò nel 1990 "Anatol", un libro che criticava apertamente Nietzsche sul suo terreno, quello del nichilismo, infimo ed infido. La differenza sostanziale - che si fa secolare se la utilizziamo in maniera sineddotica - è che Manlio Sgalambro sosteneva di non poter fare a meno della teologia per dichiarare il Nulla. Nietzsche, al contrario, ne faceva volentieri a meno, e la parola Dio, nel suo vocabolario, più che vietata era semplicemente estinta. L’incendio appiccato dal tedesco viene dunque spento dal siciliano, a cui non manca il sorriso e un pizzico di umanità. In aggiunta, Sgalambro introduce il concetto di nolontà, atto con cui la volontà, negando il reale e se stessa, raggiunge la liberazione dal dolore. Pietà e misura, dunque.

Friedrich Nietzsche (1977), La nascita della tragedia, trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano, pp. 214
Manlio Sgalambro (1990), Anatol, Adelphi, Milano, pp. 167


lunedì 21 dicembre 2015

"Lenz"


Chi dice di amare la vita in realtà non ama la vita, ma il suo feticcio. L’ottimista, l’intraprendente, l’euforico, son tutte forme, più o meno sincere, della banalità. Chi dice di amare la vita evidentemente non ne avverte la gravità, non si vede schiacciato dalla sua terrificante mola che tutto stritola ed ottunde. Dunque gli accessi di gioia e dolore, rabbia e felicità, li lasciamo volentieri agli stolti. Incamminatici sul sentiero del pessimismo, oltrepassato il disfattismo, ci inerpichiamo per le selve del Nulla. Assieme a noi c’è Georg Büchner (1813-1837), una vita bella e devastata, una gioventù finita ancor prima di cominciare, un talento nato anziano, un drammaturgo azzeccato, un ragazzo nato nel posto giusto al momento giusto, uno scrittore inopinatamente sbagliato. Il personaggio Lenz, protagonista dell’omonimo racconto tragico del 1835, è egli stesso, è Büchner listato a lutto, camminatore infaticabile di cime, foreste e valli, a cui la pesantezza dell’esistenza è ogni minuto più insopportabile, eccessiva. Vede la morte, la conosce, ne resta terrorizzato. Eppure non demorde, tant’è che si suicida e, non riuscendoci, si vede costretto a continuare, come Atlante, l’antico esercizio di reggere il mondo sulle proprie spalle. Quella morte spaventevole e a breve agognata, Georg Büchner l’avrà a soli ventisei anni, col tifo che se lo porterà via come una foglia di basilico esposta al freddo invernale. Tuttavia Georg e il suo alter ego Lenz rimangono impassibili depositari dell’unica verità che tutto ammanta, ordina e redarguisce: si muore.

Georg Büchner (1989), Lenz, a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, pp. 99

venerdì 18 dicembre 2015

"Saggio su Pan" e "La pentola dell'oro"


Il dio Pan, più di tutti i suoi colleghi, rappresenta appieno la sostituzione di senso, contenuto e venerazione operata dal cristianesimo sulle divinità pagane, greche o romane. Pan è caos, sovvertimento, anarchia, panico. Ciò è vero soltanto per quest’epoca; non è detto che lo sia stato anche ad Atene o Roma. James Hillman (1926-2011), forse lo studioso che meglio ha disvelato la figura di Fauno, nel suo "Saggio su Pan" (1972) ha praticamente condotto una vera e propria psicoanalisi sulla mente del dio, dimostrando molte delle maliziose inesattezze che tuttora lo riguardano. Del pari, James Stephens (1880-1950) prese la figura di Pan e la inserì in un contesto sgarbatamente onirico che univa diverse e lontanissime tradizioni, dalla favolistica irlandese alla religione greca. Ne "La pentola dell’oro" (1912) il dio è bello e magnetico, defloratore e gentiluomo, in una struttura narrativa che pare attingere dal James Joyce (1882-1941) più recondito. Letti in successione, questi due libri, entrambi difficoltosi, offrono comunque una panoramica su colui che, da simbolo della mascolinità, – o meglio della masturbazione, da intendere come l’onorevole pratica dell’onanismo – si è tramutato in corruttore, traviatore, distruttore dell’ordine mondiale e della teoria della passività e infelicità cristiane.

James Hillman (1977), Saggio su Pan, trad. di A. Giuliani, Adelphi, Milano, pp. 137
James Stephens (1969), La pentola dell’oro, trad. di A. Motti, Adelphi, Milano, pp. 231


giovedì 29 ottobre 2015

"L'album perduto"


La figura del principe Charles Maurice de Talleyrand-Périgord (1754-1838) è passata alla storia per l’estremo trasformismo che ancor oggi incarna. Camaleontico ed opportunista, il vescovo parigino è sopravvissuto - più che sopravvissuto, ha supervisionato - le tre epoche più importanti di Francia: l’Ancien Régime, la Rivoluzione e la Restaurazione. Talleyrand è stato il protagonista occulto di una delle pagine più importanti della storia europea e, a dimostrarlo, c’è questo libello scritto dal poligrafo Henri de Lautoche (1785-1851), il quale raccolse moltissimi aneddoti e aforismi del principe strutturandoli a mo’ di romanzetto storico. Da "L’album perduto" (1829) vorrei trarre una sola citazione che forse può ben spiegare tanto l’intento letterario di Latouche quanto il carattere dissacrante di Talleyrand. Si riferisce al periodo della Restaurazione, dopo che molte teste erano state tagliate - dai rivoluzionari prima e dai reazionari poi -, allorquando il re Luigi XVIII di Borbone (1755-1824) chiese al politico di corte come avesse fatto a passare indenne il terribile periodo 1789-1814 e a restare praticamente sulla cresta dell’onda. Talleyrand, semplicemente, rispose: «Non ho fatto proprio niente; c’è in me qualcosa di inspiegabile che porta disgrazia ai governi che non mi apprezzano». Da questa massima si evince come l’opportunismo, senza unabbondante dose di intelligenza, sia mera ipocrisia. Il camaleontismo di Talleyrand rappresenta invece il più bel completamento politico del machiavellismo: entrambe queste correnti concorrono a creare il perfetto statista, padre della patria e amministratore dello stato a un tempo. Provate voi a verificare chi son stati i superstiti di qualsivoglia stravolgimento politico: troverete perlopiù volpi e lupi, assai più raramente veri uomini di governo. E proprio tra quei pochi si nasconde lo statista.

Henri de Latouche (1998), L’album perduto, a cura di F. Dupuigrenet Desroussilles, trad. di G. Cillario, Adelphi, Milano, pp. 175

giovedì 15 ottobre 2015

"Storia dell'eternità"


Nel primo saggio, eponimo, contenuto nella "Storia dell’eternità" (1936) di Jorge Luis Borges (1899-1986) mi è balzata all’occhio un’interessantissima quanto lucida impressione dell’autore che, intento a tracciare i confini del concetto di eternità, riporta l’esempio dell’uccello. «L’abitudine di radunarsi in stormi, le piccole dimensioni, l’identità dell’aspetto, l’assidua presenza ai due crepuscoli, quello dell’inizio e quello della fine del giorno, la circostanza che frequentino più il nostro udito che la nostra vista: tutto questo ci induce ad ammettere il primato della specie e la quasi perfetta nullità degli individui», come a dire che gli animali sono segnali d’eterno. Gli uccelli che vediamo librarsi nel cielo sono gli stessi che vide Aristofane, uno smagrito cane randagio è il medesimo che curò la ferita di san Rocco, un leone che passeggia minaccioso dietro le sbarre di uno zoo sgangherato è lo stesso che entrava nell’arena del Colosseo durante i giochi romani, i pesci che vediamo scorrazzare nelle acque di un fiume sono identici a quelli riportati sul mosaico bizantino nella chiesa di san Giorgio a Madaba, che fecero dietrofront quando assaggiarono le acque salate del Mar Morto. Oggi gli animali hanno smesso di rappresentare l’eternità, poiché li abbiamo esageratamente antropomorfizzati, abbiamo traslato sulle bestie caratteristiche umane che mal si addicono alla natura ferina: affetto reciproco, capacità di discernimento, sbalzi d’umore e via dicendo. L’etologia, che intende studiare il comportamento degli animali, prende la bestia come oggetto di studio, non come individuo da psicanalizzare. L’animale umanizzato è una prerogativa del nostro tempo amorale, ascientifico, antiumano. La compassione per gli animali viene confusa coll’innalzamento dell’essere umano e un maggior grado di civilizzazione; al contrario, più essa cresce, più diminuisce quella per gli uomini nostri fratelli. Dove regna l’esaltazione della pietà animale, lì serpeggia la morte dell’eternità.

Jorge Luis Borges (1997), Storia dell’eternità, trad. di G. Guadalupi, Adelphi, Milano, pp. 135

venerdì 9 ottobre 2015

"Aurora"


Vorrei dire la mia a proposito della tradizione, intesa come la summa degli usi e costumi rilevanti che impongono un obbligo, il cui mancato rispetto provoca scandalo o perlomeno mugugni presso la maggioranza. È chiaro che una tradizione va definita cronologicamente, geograficamente, etnicamente e culturalmente: penso dunque all’Italia e agli italiani di oggi, ma soprattutto penso all’uso - o moda - di dare un nome alla prole. Mi spiego meglio. È risaputo che in Italia, soprattutto al Sud, vige la tradizione di dare il nome del nonno paterno al primo maschio che viene al mondo, una tradizione che oggi si sta perdendo a favore di una maggiore libertà dei genitori sul nome da dare ai propri figli. Ma se la tradizione dimostra di essere inefficiente su questo punto - poiché il nome del nonno potrebbe risultar sgradito ai genitori od anche al figlio stesso -, un nome scelto in piena libertà dai genitori corre lo stesso rischio, almeno nei confronti del bimbo una volta che sarà cresciuto. Quindi da questo punto di vista non c’è stato alcun miglioramento sull’aver tradito la tradizione. La moda ha certamente liberato i genitori dall’obbligo di nomare il primo figlio in un certo modo, ma li ha anche caricati della responsabilità di sceglierne uno migliore, perlomeno un nome di cui il figlio non dovrà vergognarsi in futuro. Qui volevo portarvi. Al fatto che la tradizione - da molti genitori modernisti etichettata come vecchia, sorpassata, ingiusta, bigotta - in realtà ci scarica dalle responsabilità. Quando Friedrich Nietzsche (1844-1900), in "Aurora" (1881), afferma che «la tradizione [è] un’autorità superiore, alla quale si presta obbedienza non perché comanda quel che ci è utile, ma soltanto perché ce lo comanda», non sta parlando a noi maggioranza, ma ai suoi simili, ai sovrauomini, o a chi è in procinto di esserlo. La nostra passività alla tradizione, dunque, è obbligatoria, e deve fungere da tuta mimetica, proprio come la mimicry delle scienze naturali. Nietzsche aggiunge più tardi che «si esige l’autosuperamento non a causa delle utili conseguenze che esso ha per l’individuo, bensì affinché il costume, la tradizione, appaiano imperanti, nonostante ogni opposta velleità e utilità individuali: il singolo deve sacrificarsi, questo esige l’eticità del costume». Se è vero che il filosofo tedesco rifiuta in blocco la tradizione, auspicandone il suo superamento, è altrettanto vero che il suo tentativo risulta sterile allorché si riferisce alla maggioranza degli uomini. Solo l’élite può permettersi questo salto nel vuoto nell’assenza di tradizione, di costume, di storia. La società odierna, che in questa assenza annaspa, ha perduto dunque il rispetto della tradizione - proprio quella famosa perdita di valori di cui tanto si parla a vanvera. Ritornando alla tradizione sul nome da dare alla prole, appare ora con maggior chiarezza come il mancato rispetto della tradizione implichi un maggior carico di responsabilità sui genitori, incapaci di portarla poiché appartenenti alla maggioranza. Ci si limiti quindi a rispettare l’eticità del costume, dando al primo figlio il nome del nonno, e ai successivi, magari, i nomi di santi cristiani, preferibilmente i santi celebrati nel giorno della nascita. La tradizione è un aiuto incommensurabile qui come in tutte le sfere del vivere quotidiano. Chi si considera moderno non comprenderà l’importanza della questione: poco male.

Friedrich Nietzsche (1978), Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano, pp. 283

martedì 6 ottobre 2015

"Tragico tascabile"


Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare a Bolzano del monumento alla Vittoria, un complesso trionfale edificato dal regime fascista tra il 1926 e il 1928 per glorificare la vittoria italiana sugli austriaci nella Grande Guerra. Progettato dall’insigne razionalista Marcello Piacentini (1881-1960), il complesso marmoreo sorge al posto del precedente monumento ai Kaiserjäger (costruito dagli austriaci nel 1917) proprio per rivendicare l’italianità (sostanzialmente artificiale ma formalmente piena) del luogo. In Alto Adige la discussione vede tre correnti di pensiero: alcuni vogliono lasciarlo intatto perché architettonicamente valido ed esteticamente bello, altri vogliono abbatterlo perché ricorda l’italianizzazione coatta che il regime mussoliniano impose agli altoatesini, infine altri ancora consigliano di bonificarlo, ovvero di limitarsi a rimuovere quelle parti che più offendono la cultura e la tradizione dei bolzanesi. Nello specifico, la frase incriminata è: «Hic patriæ fines. Sista signa. Hinc ceteros excoluimus lingua legibus artibus» (Qui sono i confini della patria. Pianta le insegne. Da qui educammo tutti gli altri alla lingua, al diritto e alle arti). Trovo infantile la bagarre politica venutasi a creare attorno a questo monumento che, seppur offende in qualche modo il carattere sudtirolese di questi italiani di confine, è stata sinora portata avanti da personalità di scarso spessore culturale e artistico. Un’opera d’arte, seppur di epoca totalitaria, non merita alcuna demolizione né tantomeno un restauro migliorativo che ne rinneghi il senso intimo. Nel 2015 la società italiana è abbastanza matura per apprezzare il monumento alla Vittoria di Bolzano per quello che è, un meraviglioso ma effimero altare alla potenza fascista da contestualizzare in un periodo di regimi totalitari, dei quali la nostra Costituzione non sente alcuna nostalgia. Nel corso della storia, tanti sono stati gli smantellamenti, gli abbattimenti e le razzie a monumenti di epoche precedenti ritenuti offensivi, fuori corso, addirittura sacrileghi. Pensiamo al Colosseo, depredato dei suoi rivestimenti marmorei dai papi perché ritenuto simbolo del paganesimo romano e del martirio cristiano, e arrivato a noi in uno stato di assoluta indecenza estetica. Ma se non ci fosse stata un’attenzione al bello universale Roma non avrebbe invece goduto del Pantheon, nato per venerare gli dèi e poi consacrato a chiesa cristiana, fino a diventare mausoleo dei Savoia. Ma anche nel caso del Pantheon, quando si studiano i restauri a cui fu sottoposto per purgarlo del politeismo dei gentili, viene naturale chiedersi se anche l’epoca odierna non sia innegabilmente destinata al tramonto per darne alla luce una diversa. Nei tanti e illuminanti articoletti contenuti in "Tragico tascabile" di Guido Ceronetti (1927) ve n’è uno riguardante proprio il Siegesdenkmal, nel quale l’intellettuale torinese auspica che lo Stato italiano abbatta al più presto l’Arco di Piacentini. Adoro Ceronetti ma questa sua presa di posizione - di cui comprendo appieno il senso poiché non può esservi alcuna vittoria dove c’è sofferenza e tragedia - risulta totalmente fuori luogo, specialmente in un periodo in cui dei figli di puttana senza Dio né patria (l’ISIS) fanno letteralmente saltare in aria opere architettoniche preziosissime per la storia di noi tutti (Palmira). Evitiamo allora il patetismo di considerarci i definitivi abitanti di questi luoghi, cominciando col lasciare in pace il monumento alla Vittoria di Bolzano.

Guido Ceronetti (2015), Tragico tascabile, Adelphi, Milano, pp. 215

martedì 29 settembre 2015

"Dizionario dei luoghi comuni"


Le società occidentali, dato il grado di medializzazione, son diventate oggi terra di nessuno. Le opinioni cambiano, nascono nuove idee, vengono modernizzate vecchie recensioni, eppure sembra che a regnare sovrano sia esclusivamente il caos. Alla base di questa nuova Babilonia c’è internet, forse la più importante invenzione dell’umanità. Nell’era del web è lecito dire tutto e il contrario di tutto, tanto che sarebbe giusto parlare di un’epoca dei revisionismi. La titanica quantità di informazioni non ha migliorato le masse, non ha creato la tanto agognata specializzazione, non ha favorito alcuna democrazia intellettuale: semmai ha provocato un’illegittima autoreferenzialità. Nonostante internet venga esaltato da più parti per il suo ruolo nella Primavera Araba o nell’affaire Wikileaks, per l’integrazione di sistemi elettronici di cui è stata artefice e per la creazione di reti sociali come Facebook e Twitter, in realtà questo potentissimo mezzo di persuasione viene utilizzato come uno strumento di imposizione personale, familiare, locale, insomma quanto di più lontano dall’obiettivo sperato. Internet ha generato nuovi campanilismi, nuovi pregiudizi, nuovi odi e soprattutto ha accelerato la già pericolosa perdita di memoria dei popoli. Questo perseverare nella confusione di ruoli provocherà danni di lungo periodo oggi difficilmente quantificabili. Ed anche questo mio sproloquio non è che un granello di sabbia nell’odierno deserto ideologico. Ma a differenza degli altri blogger e di tutti i naviganti virtuali, sono assolutamente consapevole della mia inutilità. E della mia inadeguatezza. Totalmente diverso l’esito di Gustave Flaubert (1821-1880) - non poteva essere altrimenti! - che nell’incompleto "Dizionario dei luoghi comuni" (1881) racchiuse la stupidità umana del suo tempo, dimostrando con sprezzante ironia quanto confuso, mediocre e inappropriato fosse il chiacchiericcio d’ogni tempo e d’ogni dove. La sola avvertenza che mi permetto di avanzare all’ignaro lettore è di tralasciate la prefazione di Juan Rodolfo Wilcock (1919-1978): è un valente scrittore ma qui riesce a polemizzare e politicizzare anche il concetto stesso di luogo comune, in una inutile ortodossia del paradosso.

Gustave Flaubert (1980), Dizionario dei luoghi comuni - Album della Marchesa - Catalogo delle idee chic, trad. di J.R. Wilcock, Adelphi, Milano, pp. 132

giovedì 24 settembre 2015

"Anatomia dell'irrequietezza" e "Ritorno in Patagonia"


«Les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent pour partir» dice Charles Baudelaire (1821-1867) ne "Le voyage", poesia che chiude "I fiori del male" (1857). Il viaggio, più che uno spostamento fisico, è una delle metafore più antiche e profonde, e in qualsiasi cultura noi siamo la troviamo riproposta in testi sacri e sacrileghi. Bruce Chatwin (1940-1989) fu un viaggiatore lato sensu, poiché alla missione esplorativa accostava sempre un viaggio interiore, fatto di riferimenti e aneddoti letterari. L’istintività e l’impazienza sono i tratti peculiari della sua "Anatomia dell’irrequietezza", pubblicato nel 1996 sia in Inghilterra che in Italia, un libro in cui lo scrittore viaggiatore britannico riversa molte delle sue traversie e traversate ai quattro angoli del globo; dentro ci sono luoghi, persone, avventure che Chatwin ha visitato, conosciuto, vissuto. Da questo mare magnum emerge poi la tanto amata Patagonia, madrepatria di una razza leggendaria ormai estintasi: i patagoni. Proprio di questi giganti tribali, assieme a Paul Theroux (1941), Bruce Chatwin scriverà le sue impressioni nel "Ritorno in Patagonia" (1985), in stringate analisi storico-letterarie che, da Pigafetta a Darwin, passando per Melville, lasceranno a bocca aperta quel lettore che adora non tanto il viaggio geografico, quanto quello intellettuale.

Bruce Chatwin (1996), Anatomia dell’irrequietezza, trad. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano, pp. 223
Bruce Chatwin & Paul Theroux (1991), Ritorno in Patagonia, trad. di C. Morena, Adelphi, Milano, pp. 77


lunedì 21 settembre 2015

"Il rovescio della Conquista" e "La donna che fuggì a cavallo"


I conquistadores, di danni, ne hanno fatti parecchi nel cosiddetto Nuovo Mondo, sterminando, schiavizzando o derubando le popolazioni native. Se l’uomo bianco non s’è posto molti problemi a tali misfatti è perché, contestualizzando le scoperte geografiche del XV e XVI secolo, i nativi, dal giorno in cui Cristoforo Colombo mise piede alle Bahamas, dovevano presentarsi piuttosto arretrati in ogni ambito antropologico. Una qualche riscoperta della genuinità dei loro usi, costumi e religioni venne poi effettuata, a mo’ di indulgenza plenaria, dal mito dell’esotismo nel XVIII secolo. Lasciando da parte il cinismo, che tanto ci piace, va detto che, al contrario di buona parte della storiografia internazionale relativa alla conquista del Nuovo Mondo, il libro del messicano Miguel León-Portilla (1926), "Il rovescio della Conquista" (1959), si pone come uno strumento validissimo e importante per capire la conquista dal punto di vista dei vinti: dalle testimonianze azteche, maya e inca traiamo un’idea, scientificamente valida, di come l’indigeno abbia assistito alla distruzione del proprio mondo, in un atteggiamento prima giubilante e poi vendicativo. È lo stesso Atahualpa (1497-1533), glorioso re inca, a impressionarmi più d’ognuno: mentre lui si dilettava in guerre civili e massacri per la stabilizzazione del proprio regno, gli spagnoli, approdati in Perù, venivano accolti come esseri soprannaturali, proprio perché nei miti religiosi di quelle genti Dio sarebbe giunto dagli oceani. Tra schermaglie, battaglie e giochi di potere, finì che il fiero sovrano Atahualpa fu processato e giustiziato dai conquistadores, tanto che da lì in poi, per le popolazioni che abitavano il continente sudamericano prima e nordamericano poi, fu tutta una discesa negli inferi. Il succitato spirito vendicativo dei nativi è ben presente in un altro libro, totalmente diverso da quello di León-Portilla. "La donna che fuggì a cavallo" (1928) di D.H. Lawrence (1885-1930) è la storia di una moglie che, stanca del marito e dell’occidente, raggiunge la tribù dei Chilchui per donarsi alle loro costumanze e ai loro dèi. Che fine potrà fare una donna europea tra aborigeni che imputano alla razza bianca problemi astronomici, religiosi e politici? Facile intuirlo.

Miguel León-Portilla (1974), Il rovescio della Conquista. Testimonianze azteche, maya e inca, trad. di G. Segre Giorgi & G. Lapasini, Adelphi, Milano, pp. 186
D.H. Lawrence (2001), La donna che fuggì a cavallo, trad. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano, pp. 83


mercoledì 16 settembre 2015

"Il Regno"


È un dato di fatto che gli islamisti oramai uccidono anche in Europa. Si organizzano, fanno proseliti e attentano alle libertà occidentali. Al di là della perdita di vite e del modo in cui vengono strappate, quello che più infastidisce, dopo i massacri del Charlie Hebdo, è l’assenza di intellettuali, in questa radura spirituale che è diventata l’Europa, in grado di fornire letture appropriate dell’epoca che stiamo vivendo. Oggi, grazie alla rinnovata forza dei mezzi di comunicazione, siamo tutti solidali con le vittime e severi con i carnefici, ma non andiamo oltre la presa di coscienza, o di posizione. Manca totalmente in Francia, come in Germania, in Italia e nel Regno Unito, una classe di filosofi, sociologi e statisti capace di spiegarci questa deriva 2.0 che ha portato l’Islam più radicale allo scontro con l’occidente. E di spiegare perché ci stia riuscendo tanto bene. Sostituire l’analisi sociologica con la vana pietà, la speculazione filosofica con lo shock da salotto, è un errore in cui cadiamo tutti. Ma è un errore a cui devono sottrarsi gli intellettuali, sui quali grava la responsabilità di prevedere il corso degli eventi e di consigliare e fornire soluzioni alla classe dirigente. L’assenza di questi ha fatto sì che il problema dell’islamismo in Europa si tramutasse in sciovinismo. I partiti xenofobi abbondano in tutto il continente e i pochi cervelli rimasti parteggiano per due fazioni opposte: da un lato si comincia ad entrare nell’ottica di una certa rigidità verso l’immigrazione, dall’altro si continua a vagheggiare una sterile autocritica su come le politiche d’integrazione si siano rivelate inefficaci. Non essendo un intellettuale, posso azzardare un’ipotesi su tutte, che parte da un’analisi esterno/interno. Dal punto di vista esterno, ovvero per quanto riguarda l’influenza esercitata da culture diverse dalla nostra, individuo nel fenomeno della ibridazione - con speciale riferimento ai paesi del cosiddetto terzo mondo - la principale causa di quello stravolgimento di valori che sta portando l’occidente a rivedere le sue conquiste in fatto di libertà e diritti. I paesi musulmani, giunti con estremo ritardo nella modernità, hanno dovuto frettolosamente adeguarsi ai sistemi imperanti (nuove tecnologie, globalizzazione, economia di mercato ecc.) col risultato di aver digerito male l’intero processo. Un tempo si sarebbe parlato di riflusso, oggi si può chiaramente parlare di indigestione. Dal lato eminentemente interno, le stragi di Parigi mostrano un allarmante problema di integrazione non degli immigrati, bensì delle seconde e terze generazioni di immigrati, ovvero di cittadini cresciuti e pasciuti all’interno del nuovo tessuto sociale. In alcuni casi, i figli, anziché emanciparsi definitivamente in favore delle libertà occidentali, son tornati alle tradizioni della cultura genitrice, radicalizzando quegli aspetti che maggiormente creano un’identità altra rispetto alla società in cui vivono. E in un mondo atomizzato, in balia delle più disparate ideologie, questa radicalizzazione può facilmente venir assorbita, nel caso particolare, dalla follia jihadista. L’unico illuminante tentativo che ho letto con gusto è stato quello messo in piedi da Emmanuel Carrère (1957) ne "Il Regno", ma forse anche la sua analisi va a parare nell’alibi del nichilismo, travisando il senso di quella rivoluzione morale, poiché parte dall’assunto secondo cui la nostra sia già una civiltà pienamente nichilista. Son passati più di 2.000 anni dall’ultimo dio. È giunta l’ora di crearne uno nuovo.

Emmanuel Carrère (2015), Il Regno, trad. di F. Bergamasco, Adelphi, Milano, pp. 428

lunedì 14 settembre 2015

"Vita di Enrico Ibsen"


Alberto Savinio (1891-1952) immagina il femminismo come un traforo del Sempione, ovvero come una montagna che venga scavata da versanti opposti da due correnti uguali e convergenti - le donne femministe e gli uomini femministi - e che questi infine si incontrino a metà strada, nel centro della montagna stessa. Nel 1943 il femminismo saviniano non è quello sessantottino e post-sessantottino, non è la mera ribellione del corpo donnesco a nuove e più aperte abitudini sessuali, non proviene dagli ambienti omosessuali e non c’entra assolutamente nulla con le rivendicazioni sessuali di qualche donna borderline. Alberto Savinio sostiene che il femminismo è un sentimento che appartiene all’uomo - nell’accezione del Mensch - poiché da una parte il maschio deve ridurre la propria quota di tirannia e di vassallaggio nei confronti della donna, e dall’altra la femmina deve rompere quello schiavismo che la relega a semplice soddisfacimento materiale dell’uomo. Spesso mi accusano di essere maschilista quando biasimo la donna facile, l’incontro di una sera, la prestazione sessuale svogliata e superficiale; chi non mi ritiene maschilista, al contrario, mi etichetta come un patetico romantico. In realtà nutro un gran rispetto per la Donna, tanto da non sopportare di vederla all’attuale stato animalesco. In quello saviniano ho ritrovato dunque il mio femminismo, ovvero distruggere il maschio che è in me, senza per questo intaccare la virilità. La domanda che sorge spontanea è: ma cosa c’entra il femminismo con la "Vita di Enrico Ibsen"? Solo leggendo il libro, potrete capire le iperboli mentali di Savinio.

Alberto Savinio (1979), Vita di Enrico Ibsen, Adelphi, Milano, pp. 90

giovedì 10 settembre 2015

"Storia di san Cipriano" e "I detti di Rābi'a"


L’ἄσκησις (askesis) rappresenta l’esercizio autarchico, l’addestramento disciplinato, nel nostro caso riferito alla sfera spirituale e/o religiosa. Nel catalogo adelphiano troviamo due figure di asceti, una cristiana, l’altra islamica: Tascio Cecilio Cipriano (210-258), vescovo cartaginese convertitosi al cristanesimo dopo aver profondamente operato nel mondo pagano, e Rābi’a al-‘Adawiyya (713-801), liberta musulmana considerata una delle più importanti figure del sufismo. Entrambi questi santi arabi si son lasciati dietro - com’era lecito attendersi - uno sciame di leggende, superstizioni e raccomandazioni. Cipriano ci viene raccontato dall’imperatrice Eudocia Augusta (401-460) come un pagano esaltato, esperto in pratiche diaboliche e per questo vicinissimo a Satana, la cui magica conversione avverrà per mano di una santa donna, Giustina. Potete ben capire come una leggenda costruita sugli elementi del diavolo come peccato, del pentimento come ravvedimento e della fede per mezzo di una donna, abbia provocato una vasta eco nel mondo barbaro: ed è proprio così che ci appare il misticismo di Cipriano. D’altro canto abbiamo Rābi’a, i cui detti sono stati tradotti per la prima volta in italiano da Caterina Valdrè e comprendono le fonti più disparate (persino vaticane). Nell’ascesi di questa santa sufi vi sono sorprendenti elementi di comunanza col cristianesimo, anche se un’affermazione del genere rischia di passare, alle orecchie degli islamisti (studiosi di islam), per una vera e propria bestemmia. Ma il sufismo, che Alessandro Bausani (1921-1988) riteneva colpevole di aver causato il declino dell’islam, rappresenta il lato più bello della religione musulmana, in quanto ne è la sua emanazione filosofica. Rābi’a ama Dio e al contempo Ne è terrorizzata: nella sua vita non c’è nient’altro all’infuori di Lui tanto che la morte sarà l'agognato ritorno presso il Signore. Al pari, Cipriano vivrà la sua fede cristiana con altrettanta enfasi, tanto da portarlo al martirio, in un mondo talmente pagano dove il solo nominare Dio equivaleva ad un atto di estremo, sfavillante coraggio.

Eudocia Augusta (2006), Storia di san Cipriano, a cura di C. Bevegni, Adelphi, Milano, pp. 207
Caterina Valdrè (a cura di) (1979), I detti di Rābi’a, Adelphi, Milano, pp. 102


martedì 8 settembre 2015

"Domicilio sconosciuto" e "Beduina"


La giovinezza scapestrata è spesso il sintomo più evidente di una fulgida intelligenza. Bruciare le tappe, come si suol dire, non è sempre un atto semplicemente provocatorio; il più delle volte rappresenta un’insofferenza alla propria età anagrafica e al proprio corpo, come se ci si sentisse davvero maturi - semplicemente più vecchi - per affrontare tutte le esperienze della vita senza restarne particolarmente traviati. È questo il caso di due giovani scrittrici, la serba Natasha Radojčić (1966) e la statunitense Alicia Erian (1967), praticamente coetanee, che raccontano le storie, decisamente autobiografiche, di due adolescenti ribelli e curiose in emisferi geografici molto diversi, cittadine del mondo perché nate in famiglie multirazziali o cosmopolite. Come dicevamo in apertura, Saša e Jasira, le due protagoniste, bruciano letteralmente le tappe della propria adolescenza: sono ragazze che crescono e si educano da sé, che imparano a relazionarsi col mondo in totale autonomia, che sperperano gli anni dell’innocenza e dell’ingenuità con orgoglio e un pizzico di narcisismo. "Domiclio sconosciuto" è ambientato tra la Jugoslavia titina e post-titina, la Grecia, New York e Cuba; "Beduina" tutto in America, tra la città natale della Erian, Syracuse, e Houston, baricentro della NASA. Sono entrambe delle narrazioni filmiche, sceneggiature bell’e pronte, storie complete nei dettagli, nei posti e nelle caratterizzazioni, le trame apertissime a qualsiasi compromesso di regia. Le due scrittrici hanno uno stile impressionante per la facilità con cui si lasciano leggere, senza ermetismi o astruserie letterarie. La Radojčić è leggermente più brutale nell’esposizione, la Erian decisamente più delicata; ma in conclusione ci permettono entrambe un’appassionante sbirciata nell’universo femminile, pre- e postadolescenziale, tra droghe pesanti e sesso illegale, il tutto senza tralasciare gli scenari politici e geopolitici del nostro passato recente: Fidel Castro, George H.W. Bush, Papandreu, la guerra del Golfo, Saddam Hussein, le Guerre jugoslave, Tito. Insomma, un mondo che freme, in totale ebollizione, proprio come i giovani corpi di Saša e Jasira.

Natasha Radojčić (2004), Domicilio sconosciuto, trad. di E. Dal Pra, Adelphi, Milano, pp. 185
Alicia Erian (2005), Beduina, trad. di G. Oneto, Adelphi, Milano, pp. 349


venerdì 4 settembre 2015

"Dal libro dei pensieri"


L’Italia è un Paese degradato, degenerato, deteriorato, forse deceduto. I parametri eziologici della sua decadenza sono da rinvenire nella lentissima ma perniciosa perdita di produzione intellettuale che ha avuto inizio nell’immediato dopoguerra per mano del consumismo e che si è consumata in quest’ultimo quarto di secolo coll’affermarsi sempre meno latente della borghesia. Quella che, rubando qualcosa a Indro Montanelli (1909-2001), definisco mediocrità borghese è infatti alla radice della questione intellettuale, questione aristocratica per definizione se contempla le problematiche inerenti l’attribuzione di significati all’esistenza umana. Un popolo che sostituisce la ricerca della (in)felicità con la rincorsa alla ricchezza materiale va veloce verso il tramonto. La richiesta di pari opportunità da parte delle masse - che a livello microscopico sembra essere un sacrosanto diritto - è in realtà una grave tragedia, tanto che la società civile, ostaggio di questo istituto giuridico, è via via diventata una terra di nessuno. La possibilità per tutti di accedere al grado più alto di istruzione, il sogno di poter rincorrere liberamente le proprie aspirazioni, il secco rifiuto delle condizioni di partenza considerate troppo limitanti hanno concorso all’odierna situazione di disfatta culturale. Se poi utilizziamo la politica come metro di giudizio per le nostre affermazioni vedremo che la teoria aristocratica sulla mediocrità borghese come causa della decadenza dimostra tutta la sua infallibile evidenza. Dal momento che ogni cittadino può sostanzialmente rappresentare le istituzioni, è stata data facoltà formale a chiunque - senza alcun filtro culturale, morale o etico - di partecipare attivamente al governo dello stato. Ma uno stato non può essere rappresentato da chiunque, poiché altrimenti sarebbe uno stato qualunque: un paese all’altezza del suo passato necessita invece degli elementi migliori partoriti dalla sua società civile. Col principio egualitario si è quindi compromessa la selezione di uomini di stato a vantaggio dell’uomo qualunque. Così è pure in tutti gli altri rami del nostro vivere in società. I grandi pensatori sono perlopiù aristocratici in quanto esprimono un’idea che li eleva dal sentire generale, un’idea che non conosce tempo, che anzi supera la contemporaneità per collocarsi nell’indefinitezza dell’eternità. È su questi pensieri che vado con la mente a Benedetto Croce (1866-1952), forse il più grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, per via della trasversalità dei suoi interessi, un uomo in grado di discettare d’amore, politica, d’arte o religione. Poi guardo l’Italia di oggi, che da quando ha smesso di perpetuarsi, è tornata ad essere proprio una nazione di uomini qualunque. Poiché nulla muore nel posto sbagliato, speriamo che prima o poi ogni cosa torni al suo posto.

Benedetto Croce (2002), Dal libro dei pensieri, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano, pp. 225

mercoledì 2 settembre 2015

"Una storia semplice" e "Ritorno a Baraule"


Due scrittori isolani: uno siciliano, l’altro sardo, uno di chiara fama, l’altro in procinto di affermarsi. Due storie truci, entrambe incentrate su un misfatto, contraddistinte da cervellotiche indagini dall’esito incerto. Leonardo Sciascia (1921-1989) e Salvatore Niffoi (1950), distanti per stile letterario, epoca e provenienza geografica, sono accomunati proprio dall’indole isolana che, per definizione, porta con sé solitudine, diffidenza, senso dell’effimero. È questo l’humus di "Una storia semplice" e "Ritorno a Baraule", due libri che vi terranno incollati alle loro pagine senza darvi tregua ma, qualora decideste di non leggerli tutti d’un fiato, riempiranno i vostri pensieri quotidiani di domande e aneddoti, rendendovi partecipi delle ricerche dei due protagonisti, un brigadiere fedele all’ideale della giustizia e un chirurgo in pensione malato di cancro. In questi due libri, oltre ad orrendi flash d’una civiltà disumana, vengono offerti gli odori della Sicilia e della Sardegna, le tradizioni secolari impantanatesi nella religione cattolica, il mare pescoso e l’arida montagna. In entrambi i racconti sono ormai lontane le reminiscenze di Pirandello e della Deledda: ogni dettaglio ha un aspetto torvo, i personaggi arcigni, la differenza è semmai nel finale. Quello di Sciascia sarà di stampo prettamente poliziesco, con sottili venature di denuncia sociale; quello di Niffoi si perderà in un labile gioco di sogni ed enigmi.

Leonardo Sciascia (1989), Una storia semplice, Adelphi, Milano, pp. 66
Salvatore Niffoi (2007), Ritorno a Baraule, Adelphi, Milano, pp. 199


lunedì 31 agosto 2015

"Chiedi scusa! Chiedi scusa!"


«Chiedi scusa! Chiedi scusa!» è ciò che un controllore irlandese urla a Collie, il protagonista, giovane medico, dopo che questo si è permesso di lamentarsi dell’estrema maleducazione di un autista di corriere. Collie sente di dover chiedere scusa non a quel controllore, ma alla sua famiglia e al mondo intero, anche se in realtà non ha nessuna colpa se non quella di essere il rampollo preferito di un magnate dell’editoria. La sua famiglia è però un vero e proprio bioparco: la mamma finta anticonformista, il padre quaquaraquà, lo zio Tom fissato nell’addestrare improbabili piccioni, il fratello Bingo scapestrato dongiovanni. Ma Collie si addossa la colpa della morte di suo fratello e di due amici per annegamento, quella di sua madre per un malore improvviso, quella di un paziente oncologico per negligenza, insomma Collie sente di non saper stare al mondo, e tenta pure il suicidio. Anni fa ho percorso, come Collie, la tratta Belfast-Galway su un pullman sudicio e pericoloso: fu un viaggio bellissimo come la campagna irlandese, e lunghissimo perché effettuato in un Paese con un sistema di trasporti da terzo mondo. Eppure, ricordo ancora con estrema gioia quella gita, ché l’autista non era maleducato ma semplicemente ubriaco. Fradicio. Collie è buono e assennato, il mondo è illogico e cattivo. Non fa per lui.

Elizabeth Kelly (2010), Chiedi scusa! Chiedi scusa!, trad. di O. Giumelli, Adelphi, Milano, pp. 349

giovedì 27 agosto 2015

"Bianco su nero"


Non ho mai condiviso la dicitura diversamente abili. Mi sa di ipocrisia e falsa pietà, una di quelle ruffianerie che gli uomini fanno per alleggerirsi la coscienza, perlomeno a parole, cercando così di alleviare lo status di chi è disabile. Una persona che nasce senza l’uso degli arti e con un evidente ritardo mentale è un handicappato, e non ha nulla di diversamente abile da un normodotato; la sua vita e quella di chi gli sta attorno saranno molto probabilmente un inferno. Poi arriva Rubén Gallego a confutare questa mia teoria, anche se, a pensarci bene, lo scrittore russo possiede davvero delle abilità diverse, poiché ha un talento raro, se confrontato alla maggioranza delle persone normali. "Bianco su nero" è proprio il racconto in prima persona, verissimo e veritiero, della sua infanzia nei vari orfanotrofi, ospedali e ospizi sovietici. Messo al mondo da due negri e lasciato ad appassire per via delle sue terribili disabilità (il nonno dirigente del Partido Comunista de España non poteva permettersi un nipote illegittimo e deforme), Gallego sopravviverà all’infame condizione dell’essere soli al mondo grazie ad un’intelligenza sopraffina e ad un’eleganza di pensiero che in seguito ne hanno fatto il grande scrittore che è oggi. Oltre alle sue guerre quotidiane - procurarsi il cibo o andare in bagno, ritagliarsi attimi di anarchia o risolvere problemi matematici - è sorprendente vedere come all’interno di un regime ateo ed anticlericale come quello sovietico, la religione e la carità cristiane siano sopravvissute clandestinamente negli animi di molte infermiere, insegnanti ed inservienti che il protagonista ha incontrato sul suo doloroso ma dignitosissimo cammino. È lo stesso Gallego a dire apertamente: «Grazie a tutte le inservienti buone, per avermi insegnato cos’è la bontà, per il calore che ho conservato nel mio cuore attraverso ogni sorta di vicissitudini. Grazie per ciò che non si può esprimere a parole, che non si calcola al computer e che non si misura. Grazie per l’amore e la carità cristiana, per il mio essere cattolico, per le mie bambine. Grazie di tutto». Semplice e toccante.

Rubén Gallego (2004), Bianco su nero, trad. di E. Gori Corti, Adelphi, Milano, pp. 187

mercoledì 26 agosto 2015

"La religione dei Cinesi"


Marcel Granet (1884-1940) è stato forse il più grande sinologo europeo che nel saggio "La religione dei Cinesi" - scritto nel 1922 ma pubblicato postumo nel 1951 - spiega come l’intreccio religioso e culturale abbia consentito alla Cina di creare una solida base per edificare in un futuro prossimo, rispetto ai tempi di Granet, una società forte e florida. Si sta diffondendo sempre più, presso le élite accademiche e governative, la convinzione secondo cui la terza via cinese possa competere con quella europea. Questo confronto appare non solo metodologicamente sbagliato ma soprattutto potenzialmente dannoso. Fino a venticinque anni fa eravamo abituati ad un mondo regolato dallo scontro ideologico tra il blocco capitalistico degli USA e quello socialista dell’URSS. Con la caduta del Muro questa dicotomia è svanita ma l’Europa, da sempre al centro di contese e conflitti, ha continuato, seppur tra mille difficoltà socioeconomiche, il proprio esperimento democratico, fatto di libero mercato e diritti civili. Mettere in discussione questo percorso, bisbigliando sempre meno a bassa voce che la Cina sia un modello vincente, è un’offesa alle vittorie ottenute nel corso dei secoli dall’umanità occidentale. Il Celeste Impero, fonte di tanta cultura e saggezza, è diventato un gigante esclusivamente economico, con pochi progressi dal punto di vista della libertà individuale e del diritto, dunque della felicità del popolo. In termini di metodo, porre sullo stesso piano il sistema cinese e quello europeo presuppone una loro possibile integrazione, il che si tramuterebbe a sua volta, sul piano concreto, non nell’agognata piena occupazione delle risorse lavorative bensì nella dittatura del lavoro, causando il definitivo tramonto della civiltà europea. Cina ed Europa devono conoscersi, scoprirsi, commerciare, cooperare. Ma il cielo non voglia che questo processo diventi un do ut des, giacché quello cinese non è realmente un modello, ma un feticcio, e di certo non per le iperinflazionate teorie che accusano la Cina di neoschiavismo, ma per la sostituzione di valori, lì operata, tra vita e lavoro, felicità e produzione. Gli stati totalitari fanno discendere ogni diritto dal Leviatano, quelli democratici li considerano innati negli individui; la Cina pare farli provenire dalla produttività, uno dei concetti moralmente più aberranti nella storia umana, in quanto istituzionalizza la natura macchinistica del cittadino e, di conseguenza, realizza la sua più completa sostituibilità. In un mondo sempre più virtuale e bisognoso di cultura, un siffatto approccio causerebbe un gigantesco passo indietro, gettando l’Europa in una nuova e controproducente era industriale. Il substrato culturale e il motore industriale ha giustamente posto la Cina ai vertici delle relazioni internazionali, ma ciò non significa che questo sia un valore assoluto cui aderire per produrre ricchezza. I problemi insiti nel sistema cinese non tarderanno a presentarsi e tra alcuni lustri si parlerà del boom economico cinese come di una causa scatenante - non di un effetto collaterale - del suo deficit democratico. E come il deficit, che accumulandosi crea lo stock di debito, al pari la Cina pagherà caro il suo debito pubblico di felicità. Della religione cinese, che faceva a meno di Dio e che Marcel Granet ammirava tanto, resta ben poco, soprattutto perché ora un dio ce l’ha: il suo nome è Renminbi.

Marcel Granet (1973), La religione dei Cinesi, trad. di B. Candian, Adelphi, Milano, pp. 192

lunedì 24 agosto 2015

"Parole nel vuoto"


I più dicono che l’arte contemporanea è brutta, incomprensibile, elementare. Un taglio, uno scarabocchio, un’installazione fatiscente, uno sgorbio. A volte nemmeno quello: un gesto stupido, una frase ermetica, una burla ai danni dello spettatore. L’arte, ammettono gli stessi, è quella di Van Gogh, Giotto, Cézanne, Monet, finanche di Klimt o Munch, ma certo non è quella di Manzoni, Klein, Beecroft o Kawara. La maggior parte di quelli che si presentano al Louvre per la visita di rito, trascorre la giornata ad immortalare con la fotocamera "Amore e psiche" del Canova, la "Deposizione di Cristo" di Tiziano, "La Libertà che guida il popolo" di Delacroix o "La zattera della Medusa" di Géricault. Opere d’arte maestose, certo, ma non solo per la loro sconfinata tecnica pittorica. Di per sé, il gesto di fotografare un’opera d’arte è quantomai avvilente: si delega ad un occhio digitale quello che invece dovrebbe essere un diritto dell’occhio umano, in quanto collegato al cervello. Provate a porre ad uno qualunque di questi aitanti fotografi una semplice domanda e capirete quanto riduttiva e metodologicamente sbagliata sia l’idea comune sull’arte. Il quesito è: «Per te, cos’è l’arte?». La domanda sembra la stessa che l’architetto Adolf Loos (1870-1933) si è posto in diversi saggi contenuti nell'introvabile "Parole nel vuoto". La maggior parte dei vostri conversatori risponderà che l’arte è qualcosa che dà emozioni, oppure tutto ciò che è bello, persino ciò che richiede un notevole talento. Arriveranno a dirvi che l’arte è ciò che non si può spiegare. Risposte del genere non fanno che aumentare la confusione riguardo l’arte stessa che - ci sforziamo di ripeterlo da tempo, con definizione minimale - non è altro che l’attribuzione di un significato che va oltre l’oggetto. Nell’idea comune viene confusa l’opera d’arte con la sua dimensione estetica, confrontata l’arte con l’artigianato, ridotta essa stessa a ciò che non può essere per definizione: funzionale. L’arte non è decorativa, non è appagante né accomodante. Ma in questa sede non possiamo trattenerci a lungo sulle peculiarità intrinseche che distinguono un’opera d’arte - sia essa un quadro, un palazzo, una musica, un pensiero, un libro, una vita - dal resto delle cose umane, né possiamo qui convincere alcuno della bontà di questa idea. Perlomeno cercheremo in breve di condannare alcune costumanze che hanno impoverito l’arte, che l’hanno resa borghese, mediocre, e poi definitivamente messa in discussione. Se la metà dei frequentatori di musei capisse almeno quale storica rottura sia alla base della contemporaneità, oggi avremmo dei cittadini certamente più attivi ed appassionati. Perché il mondo dipinto da Baselitz e Baj non è più quello di Manet o Raffaello. Non è cambiato non il soggetto, ma il suo ruolo nel mondo. Questa discussione si rende necessaria soprattutto oggi, con le grandi avanguardie che hanno esaurito la vena creativa, e con autorevoli critici d’arte e curatori di mostre che si interrogano sull’effettiva qualità artistica del secondo Novecento. È vero che molta arte contemporanea è mera provocazione, ma la maggior parte della produzione del dopoguerra resta una pietra miliare nell’evoluzione del pensiero umano. D’altronde, non è stata altrettanto provocatoria l’arte di Dalí, Arcimboldo, Picasso, Correggio, Matisse, Leonardo? Purtroppo chi affolla i musei d’arte contemporanea se ne frega altamente di questa critique institutionnelle. Al giorno d’oggi le mostre e i musei vengono giudicati esclusivamente sull’affluenza di visitatori (dunque sugli introiti): faccenda oltraggiosa per ogni buon amante dell’arte. Chi invece continua a frequentare i musei classici (dal Louvre ai Musei Vaticani, dal Musée d’Orsay all’Hermitage, dal Prado agli Uffizi), del problema sull’arte contemporanea non ne è nemmeno cosciente. Per rendere davvero di massa l’arte contemporanea è obbligatorio un repentino mutamento dell’estetica dominante. E per cambiare l’estetica dominante c’è bisogno di una critica al gusto personale, partendo dalle sue radici. Capire cioè che i gusti non esistono, vieppiù non esistono valori assoluti, soprattutto nell’arte. È il significato dell’opera a parlare per lei, non il vostro gusto, gonfio di stereotipi e luoghi comuni. Dunque de gustibus disputandum est.

Adolf Loos (1972), Parole nel vuoto, trad. di S. Gessner, Adelphi, Milano, pp. 373

mercoledì 12 agosto 2015

"Tecnica del colpo di Stato"


La destra italiana, a dispetto di molte altre realtà europee, affonda le proprie radici culturali e politiche in un vastissimo panorama di intellettuali che, già prima dell’unificazione italiana, produceva un copioso scambio di idee, arti e proposte. I conservatori erano coloro che intendevano mantenere vivi i valori secolari della propria civiltà: la res publica romana, la cultura cristiana dei conventi benedettini, l’estetica rinascimentale, la flemmatica magnificenza borbonica o il nazionalismo sabaudo che portò all’unità d’Italia. Essere conservatori significava soprattutto riconoscere la disuguaglianza dei cittadini, per cui ogni individuo, in base alle proprie attitudini, al proprio talento e alle proprie capacità, percorreva una strada tutta sua, sulla quale gli sarebbero stati riconosciuti i meriti. Ai più deboli avrebbe pensato lo Stato, primo e ultimo erogatore di diritti e doveri. Seppur sintetizzata così malamente, la destra appariva un’area di pensiero talmente interessante da rendere fisiologico al suo interno il dialogo. Oggi invece sembra un deserto di sale, una tundra abitata da goffi esemplari di homo erectus, le cui proposte politiche raramente vanno al di là della lotta all’immigrazione, della millantata difesa del made in Italy, del sostegno alle attività imprenditoriali, della deregulation, della strenua difesa degli interessi ecclesiastici e, ovviamente, della venerazione del capo. La destra italiana è la supina accettazione degli ordini provenienti da personaggi politici di dubbio valore e di ancor più dubbia onestà, quantomeno intellettuale. Si ha oggi l’impressione che sia andato perduto tutto quel che di culturalmente valido c’era nel conservatorismo italiano del Novecento. Questo ha infatti assunto due principali direttrici ideologiche, legate a due diversi ventenni: la prima è quella meramente nostalgica, la seconda è quella berlusconiana. In entrambi i casi appare chiaro che la destra italiana è irrinunciabilmente legata al culto delle personalità di Mussolini e Berlusconi. L’unica eccezione, che ci saremmo volentieri risparmiati, è la destra leghista, ovvero un minestrone di xenofobia, regionalismo ed ignoranza. Eppure, fu quando lessi "Tecnica del colpo di Stato" (1931) di Curzio Malaparte (1898-1957) che capii che la destra era soprattutto qualcosa di rivoluzionario, non di reazionario o conservatore, e fu allora che smisi di definirmi uomo di destra.

Curzio Malaparte (2011), Tecnica del colpo di Stato, a cura di G. Pinotti, Adelphi, Milano, pp. 270

lunedì 10 agosto 2015

"Lo Zen e il tiro con l'arco"


C’è attorno a noi una grande bugia, quella dell’atto e dell’azione, e di conseguenza quella del fatto e del mis-fatto. L’atto sconfessa sempre l’intento programmatico dell’azione, tanto che vengono a collimare finché l’attore - che proviene da agere (perorare) e non c’entra niente col re-citare (citare la cosa) - diventa egli stesso l’atto. Chi si approccia al taoismo e, più in generale, alle filosofie orientali, noterà la medesima assenza di oggettivazione con l’esistenzialismo, dove l’unica differenza sta semmai nel giudizio morale tra il nirvana e il sovrauomo. Ne "Lo Zen e il tiro con l'arco" (1948) di Eugen Herrigel (1884-1955), questo professore tedesco di filosofia prende lezioni di tiro con l’arco da un maestro Zen, fino a smascherare la menzogna della volontà, fino ad esser lui l’arco, fino a diventarne la freccia, fino ad esser egli stesso il bersaglio. Fino a non esser più lui. Proprio come sosteneva Arnold Schönberg (1874-1951), padre della dodecafonia, quando affermava: «Ich bin nur das Sprachrohr einer Idee» (Sono solo l’altoparlante di un’idea); come Demetrio Stratos (1945-1979), leader degli Area, che cantava la voce nelle sue diplofonie e triplofonie; come san Giuseppe da Copertino che oltrepassava la santità fino a misconoscerla; come Bacon e Pollock che dipingevano la pittura pur di non dipingere. Tra tutti coloro che vanno oltre se stessi nell’interesse dell’arte, Carmelo Bene (1937-2002), al pari del professor Herrigel, oltrepassò i dogmi dell’esistenza e apparve alla Madonna, la figura che in mariologia è per definizione advocata ancor prima che assumpta. In quel capolavoro della cinematografia italiana che è "Nostra Signora dei Turchi" (1968) l’impossibilità di agire è ben rappresentata da un Bene impacciato, istupidito, inconscio. Un santo autobeatificatosi che si rinnega sempre, si morde la coda ed infine impazzisce meritatamente. Cito: «I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione».

Eugen Herrigel (1975), Lo Zen e il tiro con l’arco, trad. di G. Bemporad, Adelphi, Milano, pp. 100