lunedì 24 agosto 2015

"Parole nel vuoto"


I più dicono che l’arte contemporanea è brutta, incomprensibile, elementare. Un taglio, uno scarabocchio, un’installazione fatiscente, uno sgorbio. A volte nemmeno quello: un gesto stupido, una frase ermetica, una burla ai danni dello spettatore. L’arte, ammettono gli stessi, è quella di Van Gogh, Giotto, Cézanne, Monet, finanche di Klimt o Munch, ma certo non è quella di Manzoni, Klein, Beecroft o Kawara. La maggior parte di quelli che si presentano al Louvre per la visita di rito, trascorre la giornata ad immortalare con la fotocamera "Amore e psiche" del Canova, la "Deposizione di Cristo" di Tiziano, "La Libertà che guida il popolo" di Delacroix o "La zattera della Medusa" di Géricault. Opere d’arte maestose, certo, ma non solo per la loro sconfinata tecnica pittorica. Di per sé, il gesto di fotografare un’opera d’arte è quantomai avvilente: si delega ad un occhio digitale quello che invece dovrebbe essere un diritto dell’occhio umano, in quanto collegato al cervello. Provate a porre ad uno qualunque di questi aitanti fotografi una semplice domanda e capirete quanto riduttiva e metodologicamente sbagliata sia l’idea comune sull’arte. Il quesito è: «Per te, cos’è l’arte?». La domanda sembra la stessa che l’architetto Adolf Loos (1870-1933) si è posto in diversi saggi contenuti nell'introvabile "Parole nel vuoto". La maggior parte dei vostri conversatori risponderà che l’arte è qualcosa che dà emozioni, oppure tutto ciò che è bello, persino ciò che richiede un notevole talento. Arriveranno a dirvi che l’arte è ciò che non si può spiegare. Risposte del genere non fanno che aumentare la confusione riguardo l’arte stessa che - ci sforziamo di ripeterlo da tempo, con definizione minimale - non è altro che l’attribuzione di un significato che va oltre l’oggetto. Nell’idea comune viene confusa l’opera d’arte con la sua dimensione estetica, confrontata l’arte con l’artigianato, ridotta essa stessa a ciò che non può essere per definizione: funzionale. L’arte non è decorativa, non è appagante né accomodante. Ma in questa sede non possiamo trattenerci a lungo sulle peculiarità intrinseche che distinguono un’opera d’arte - sia essa un quadro, un palazzo, una musica, un pensiero, un libro, una vita - dal resto delle cose umane, né possiamo qui convincere alcuno della bontà di questa idea. Perlomeno cercheremo in breve di condannare alcune costumanze che hanno impoverito l’arte, che l’hanno resa borghese, mediocre, e poi definitivamente messa in discussione. Se la metà dei frequentatori di musei capisse almeno quale storica rottura sia alla base della contemporaneità, oggi avremmo dei cittadini certamente più attivi ed appassionati. Perché il mondo dipinto da Baselitz e Baj non è più quello di Manet o Raffaello. Non è cambiato non il soggetto, ma il suo ruolo nel mondo. Questa discussione si rende necessaria soprattutto oggi, con le grandi avanguardie che hanno esaurito la vena creativa, e con autorevoli critici d’arte e curatori di mostre che si interrogano sull’effettiva qualità artistica del secondo Novecento. È vero che molta arte contemporanea è mera provocazione, ma la maggior parte della produzione del dopoguerra resta una pietra miliare nell’evoluzione del pensiero umano. D’altronde, non è stata altrettanto provocatoria l’arte di Dalí, Arcimboldo, Picasso, Correggio, Matisse, Leonardo? Purtroppo chi affolla i musei d’arte contemporanea se ne frega altamente di questa critique institutionnelle. Al giorno d’oggi le mostre e i musei vengono giudicati esclusivamente sull’affluenza di visitatori (dunque sugli introiti): faccenda oltraggiosa per ogni buon amante dell’arte. Chi invece continua a frequentare i musei classici (dal Louvre ai Musei Vaticani, dal Musée d’Orsay all’Hermitage, dal Prado agli Uffizi), del problema sull’arte contemporanea non ne è nemmeno cosciente. Per rendere davvero di massa l’arte contemporanea è obbligatorio un repentino mutamento dell’estetica dominante. E per cambiare l’estetica dominante c’è bisogno di una critica al gusto personale, partendo dalle sue radici. Capire cioè che i gusti non esistono, vieppiù non esistono valori assoluti, soprattutto nell’arte. È il significato dell’opera a parlare per lei, non il vostro gusto, gonfio di stereotipi e luoghi comuni. Dunque de gustibus disputandum est.

Adolf Loos (1972), Parole nel vuoto, trad. di S. Gessner, Adelphi, Milano, pp. 373

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