giovedì 10 settembre 2015

"Storia di san Cipriano" e "I detti di Rābi'a"


L’ἄσκησις (askesis) rappresenta l’esercizio autarchico, l’addestramento disciplinato, nel nostro caso riferito alla sfera spirituale e/o religiosa. Nel catalogo adelphiano troviamo due figure di asceti, una cristiana, l’altra islamica: Tascio Cecilio Cipriano (210-258), vescovo cartaginese convertitosi al cristanesimo dopo aver profondamente operato nel mondo pagano, e Rābi’a al-‘Adawiyya (713-801), liberta musulmana considerata una delle più importanti figure del sufismo. Entrambi questi santi arabi si son lasciati dietro - com’era lecito attendersi - uno sciame di leggende, superstizioni e raccomandazioni. Cipriano ci viene raccontato dall’imperatrice Eudocia Augusta (401-460) come un pagano esaltato, esperto in pratiche diaboliche e per questo vicinissimo a Satana, la cui magica conversione avverrà per mano di una santa donna, Giustina. Potete ben capire come una leggenda costruita sugli elementi del diavolo come peccato, del pentimento come ravvedimento e della fede per mezzo di una donna, abbia provocato una vasta eco nel mondo barbaro: ed è proprio così che ci appare il misticismo di Cipriano. D’altro canto abbiamo Rābi’a, i cui detti sono stati tradotti per la prima volta in italiano da Caterina Valdrè e comprendono le fonti più disparate (persino vaticane). Nell’ascesi di questa santa sufi vi sono sorprendenti elementi di comunanza col cristianesimo, anche se un’affermazione del genere rischia di passare, alle orecchie degli islamisti (studiosi di islam), per una vera e propria bestemmia. Ma il sufismo, che Alessandro Bausani (1921-1988) riteneva colpevole di aver causato il declino dell’islam, rappresenta il lato più bello della religione musulmana, in quanto ne è la sua emanazione filosofica. Rābi’a ama Dio e al contempo Ne è terrorizzata: nella sua vita non c’è nient’altro all’infuori di Lui tanto che la morte sarà l'agognato ritorno presso il Signore. Al pari, Cipriano vivrà la sua fede cristiana con altrettanta enfasi, tanto da portarlo al martirio, in un mondo talmente pagano dove il solo nominare Dio equivaleva ad un atto di estremo, sfavillante coraggio.

Eudocia Augusta (2006), Storia di san Cipriano, a cura di C. Bevegni, Adelphi, Milano, pp. 207
Caterina Valdrè (a cura di) (1979), I detti di Rābi’a, Adelphi, Milano, pp. 102


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