lunedì 2 marzo 2015

"Vite immaginarie"


Grande mistificatore, sognatore, abile falsario, inventore di genio, manipolatore nonché amante della bibliografia più illustre: Marcel Schwob (1867-1905), misconosciuto autore adelphiano, è uno di quei rari casi letterari in cui il genere agiografico sposa l’elemento irrazionale, tanto caro alla casa editrice milanese, che nell’ultimo mezzo secolo ne ha fatto un baluardo in termini di forma. Le "Vite immaginarie" (1896) di Schwob, di primo acchito, ricordano le "Vite parallele" di Plutarco, ma in realtà sono tutta un’altra cosa. Lo scrittore francese tratteggia tanto le esistenze di grandi personaggi dell’antichità (Empedocle, Petronio, Lucrezio, Clodia ecc.) e della prima modernità (Cecco Angiolieri, Paolo Uccello, Nicolas Loyseleur, Pocahontas ecc.) come quelle di anonime figure fuori dal tempo e dallo spazio, in un’esegesi laica che annette ad ogni vita raccontata capacità straordinarie, rituali, taumaturgiche. Per ogni personaggio si pone un dilemma riguardante la bontà della sua opera: in altre parole, le gesta degli uomini vanno giudicate per quel che realmente producono o contestualizzandole nella combinazione di virtù e peccati cui giocoforza sottostanno? Il dilemma sembra risolversi solo attraverso il teorema adiabatico. C’è poi un’altra assonanza che salta all’orecchio dopo aver letto le "Vite immaginarie" ed è quella con la "Visita a Rousseau e a Voltaire" (Adelphi 1973) di James Boswell (1740-1795), allorquando questi dimostra inconsapevolmente che la frequentazione dei migliori non implica direttamente un miglioramento della propria persona e che, anzi, può rivelarsi un’attività vanesia, illusoria e piuttosto onanistica. Marcel Schwob evita questo parossismo non raccontando le vite, bensì inventandole di sana pianta, accogliendo nelle sue descrizioni soltanto quei frammenti veritieri e luminosi che ab absurdo sostengono l’agiografia. Alla fine del libro troviamo la biografia dello stesso Schwob, ad opera della curatrice Fleur Jaeggy (1940), smagliante talento svizzero della parola poetata, che dimostra come l’infondatezza dell’operazione schwobiana, effettuata tra il XIX e il XX secolo, sia un iridescente caso di mitologia, genere letterario scomparso dal sostrato europeo parecchi secoli or sono.

Marcel Schwob (1972), Vite immaginarie, a cura di F. Jaeggy, Adelphi, Milano, pp. 210

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