martedì 24 marzo 2015

"Pedigree" e "Lettera a mia madre"


Leggendo "Pedigree" di Georges Simenon (1903-1989), tra gli ultimi e più complessi romanzi del narratore belga, viene alla mente il drastico cambiamento operato dall’industrializzazione sulle genti europee di inizio Novecento. Affiorano persino impressioni pasoliniane quando Simenon ci descrive una Liegi ancora scandita dalle piccole vicende di commercianti e poveri cristi, una città preda delle ideologie, in attesa della Grande Guerra, con gli anarchici che lasciano volantini e fanno scoppiare bombe. Quella rottura che trascinò l’Italia dall’era contadina nell’epoca urbana borghese la ritroviamo proprio in "Pedigree", seppur in salsa fiamminga. I protagonisti della storia, Élise e Désiré, sono due sposi molto diversi tra loro, la prima permalosa, orgogliosa e nevrastenica, il secondo buono ma poco senziente. Al di là della trama del romanzo - in realtà è un’autobiografia, dato che i protagonisti sono i veri genitori di Simenon e una più approfondita conoscenza di Élise/Henriette la si può fare solo leggendo la toccante "Lettera a mia madre" (Adelphi 1985) - ciò che colpisce sta proprio nella capacità dell’autore di descrivere i sottili stati d’animo della gente comune, in una cornice scenografica simile a quella delle nostre città negli anni ’10. Così anche Pier Paolo Pasolini (1922-1975), quando parlava di rottura dei ritmi arcaici, intendeva proprio quella trasfigurazione consumistica, causa principale della deturpazione morale ed estetica dell’Italia. Ciò che rende debole la visione pasoliniana sta nel suo convincimento che questa sfasatura sia avvenuta d’incanto, come se si fosse passati da uno stato iperboreo ad uno perverso. Diverso è il sentore simenoniano, per il quale non v’è giudizio morale, ma una semplice constatazione dell’aspirazione personale di ognuno a migliorare il benessere della propria famiglia. È così che vengono alla luce le invidie e le antipatie parentali, gli odi dettati dalla violenza casalinga, l’alcolismo, la vanità, le bugie, le fisime. Leggendo questo libro sembra di fare un tuffo in un’epoca per niente romantica, a differenza del credo pasoliniano. Certamente un’epoca di grandi idee e grandi uomini, ma irrimediabilmente abitata dal rancore e dalla miseria, se non addirittura dalla povertà. Questo è solo un impertinente raffronto fra due grandi intellettuali del Novecento, nulla di più. Eppure tra le righe di "Pedigree" c’è qualcosa di più d’una semplice storia di vita; come in tutti i capolavori c’è un metasignificato nascosto agli occhi dei lettori svogliati, ma luminosissimo agli animi gentili. Pasolini e Simenon, noto ai più per le avventure del commissario Maigret, sono cronologicamente e ideologicamente distanti ma accomunati dall’indagine sociologica. In pratica lontanissimi, quasi vicini.

Georges Simenon (1987), Pedigree, trad. di G. Bongiovanni, Adelphi, Milano, pp. 554
Georges Simenon (1985), Lettera a mia madre, a cura di G. Mariotti, Adelphi, Milano, pp. 97


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