venerdì 29 maggio 2015

"Sulle teorie di Mach"


Prendete una donna. È come se a tratti gnoseologici delineaste il suo viso e per rifrazione si scaldasse il vostro corpo; contemporaneamente vi raffreddaste un poco in un eccesso di turbine solare. Nessuno capisce davvero le leggi di natura. Ernst Mach (1838-1916) le espose solitario e inascoltato in un tempo illuminato: due corpi avvicinati si mutano a vicenda. Perdere e guadagnare: la medesima funzione. Adesso chiudete gli occhi: non vedete quella gente? Ad occhi aperti potremmo chiamarli biciclette. Le cose sono tali solo quando non son cose, le sensazioni creano mondi sconosciuti. Questa non è che la tesi di dottorato che Robert Musil (1880-1942) discusse nel 1908 all’Università di Berlino sulle condizioni sotto le quali si può avere una conoscenza scientifica. Realtà, utilità, neuroscienza ed epistemologia ammantano dunque quest’opera - di per sé poco comprensibile al lettore medio - che tratta temi di un autore poco apprezzato, screditato, disconosciuto soprattutto dagli ambienti della sinistra di stampo materialistico. "Sulle teorie di Mach", terzo capitolo dell’allora neonata Piccola Biblioteca di Adelphi, si incuneò senza troppe speranze proprio nel solco di questa critica, rovesciandola, dimostrando al grande pubblico che non v’è certezza alcuna, soprattutto in campo scientifico, se non attraverso l’esperienza - o meglio attraverso alcune forme di empirismo, tanto caro ai marxisti -, un'esperienza che abbracci l’elemento psichico, elemento che Lenin (1870-1924) non considerava complementare a quello fisico. La lucentezza dell'empiriocriticista Mach, nella critica di Musil, persiste intatta, in una sorta di devozione del secondo nei confronti del primo, una devozione nemmeno paragonabile a quella dei leninisti, che è del tutto assente.

Robert Musil (1973), Sulle teorie di Mach, trad. di M. Montinari, Adelphi, Milano, pp. 127


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