mercoledì 27 maggio 2015

"Uomini e macchine intelligenti"


Da oltre un secolo l’uomo immagina e progetta macchine in grado di aiutarlo e, magari, sostituirlo nei compiti più gravosi. Il bel libro di Jeremy Bernstein (1929) pubblicato nel 1990 da Adelphi raccoglie due saggi esplicativi - "Experiencing science" (1978) e "Science observed. Essays out of my mind" (1982) - in cui il fisico teorico di Rochester racconta i suoi incontri con le maggiori menti del Novecento in materia di matematica, fisica, logica ed informatica. Il fine è quello di giungere ad una retrospettiva su IA, l’intelligenza artificiale, concetto incantevole ed avvincente, fondamentale per la progettazione di macchine pensanti, addirittura autoreplicantesi. Il nume tutelare più ricorrente è Marvin Minsky (1927) col suo Perceptron, eppure a colpire l’immaginazione di un profano come me, uscito dal liceo scientifico con un anonimo 6 in matematica, non è tanto l’invenzione di nuovi linguaggi di programmazione o il disvelamento delle potenzialità dei transistori, bensì le irrazionalità insite nel cosiddetto gioco di Turing e nell’altrettanto famoso teorema di Gödel. Il primo consiste nella prova offerta dal britannico Alan Turing (1912-1954) nel suo articolo "Computing machinery and intelligence" (1950) da cui derivava che qualora non si riuscisse a distinguere, in base a una differenza nella loro natura, le risposte di un uomo da quelle della macchina, bisognerà concludere che la macchina sia in grado di pensare. «Pensare» scrisse Turing «è una funzione dell’anima immortale dell’uomo. Dio ha dato un’anima immortale a tutti gli uomini e a tutte le donne, ma non agli altri animali o alle macchine. Perciò né gli animali né le macchine sono in grado di pensare». La macchina ribatté: «Se l’uomo fosse una macchina, allora anche Dio sarebbe una macchina». Allorquando le fu chiesto se pensava di avere un’anima, essa rispose: «Mi piacerebbe saperlo». Anche se l’elaboratore ha risposto in base a freddi calcoli logici, di cui ignoriamo il funzionamento, è meraviglioso notare quanto abissali siano queste risposte, indifferentemente se a interpretarle sia un matematico o un teologo. Se provate ad effettuare il medesimo test su Cleverbot vedrete che le risposte saranno indicibilmente più deludenti. Del resto, per quanto riguarda la figura di Kurt Gödel (1906-1978), Bernstein illustra, con un artifizio da romanziere navigato, il supremo teorema del matematico austriaco per il quale «non esiste alcuna dimostrazione del fatto che la matematica abbia una coerenza assoluta e nessuna dimostrazione potrà mai esserne data». I concetti di indicibilità e incompletezza introdotti da Gödel nel 1931 schiudono impensabili orizzonti nel campo dei sistemi, che già David Hilbert (1862-1943), in una lettera a Gottlob Frege (1848-1925), aveva in parte aperto: «Se io, come miei punti, penso quali si vogliano sistemi di cose, per esempio il sistema amore, legge, spazzacamino, e poi non faccio altro che assumere tutti i miei assiomi come relazioni tra tali cose, allora le mie proposizioni, per esempio il teorema di Pitagora, valgono anche per queste cose. Il retaggio di un universo dotato di senso […] viene sconvolto da siffatta matematica, la quale può asserire qualsiasi cosa e questo universo in quanto qualsiasi». Concludo con un passo proveniente da "La morte del sole" (Adelphi, 1982) di Manlio Sgalambro (1924-2014): «È la matematica il linguaggio odierno, non le grida scomposte. Essa è il coro dei sopravvissuti. Il latino con cui l’uomo d’oggi celebra la liturgia dell’estinzione senza capirci granché. I numeri non si possono amare».

Jeremy Bernstein (1990), Uomini e macchine intelligenti, trad. di G. Longo, Adelphi, Milano, pp. 239


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