giovedì 16 luglio 2015

"Due città"


Il professor Monti disse no alle olimpiadi romane del 2020. Il modo, apparentemente sgarbato e superficiale, diede parecchio fastidio soprattutto al primo cittadino di allora, tale Gianni Alemanno. La realtà è che l’Italia non poteva - e forse non può - permettersi nemmeno un’olimpiade. Una verità dura da digerire. Una velleità. Troppo fresca è la ferita di Atene, impelagatasi in un evento sportivo troppo grande e dispendioso, che, senza ombra di dubbio, ha velocizzato lo sfascio economico del Paese ellenico. Ciò che più mi angoscia oggi è assistere all’ennesimo spreco di fondi e infrastrutture nella Città Eterna. Abito nel Parco di Torre Gaia e dal mio balcone è visibile a 360° tutto il campus di Tor Vergata, al centro del quale campeggia l’enorme croce voluta da Giovanni Paolo II per il Giubileo del 2000. Zona lussureggiante, parallela all’A1, con una linea di metropolitana nuova di zecca (anch’essa figlia di lungaggini e sprechi unici al mondo) e con 200.000 cittadini residenti - a cui vanno aggiunti gli abitanti dei Castelli Romani, numerosissimi e vicinissimi. Fu proprio a partire da quel Giubileo che la municipalità di Roma si mise in testa di far le cose in grande stile, alcune davvero troppo ingombranti. E proprio in quel campus, in occasione dei mondiali di nuoto del 2009 doveva esser pronta una città dello sport, avveniristica sulla carta e dallo spiccato gusto estetico, opera di un archistar internazionalmente riconosciuta come Santiago Calatrava. Alla fine, come spesso accade dalle nostre parti, il cantiere rimase aperto e i mondiali di nuoto dovettero svolgerli ancora una volta al Foro Mussolini. Nonostante ciò, i politici romani non si rassegnarono. Certi di una candidatura di Roma ai Giochi della XXXII Olimpiade - e quindi di una facile vittoria ai danni di Madrid, Baku, Doha, Tokyo e Istanbul - lasciarono in piedi il progetto di Calatrava e continuarono a dargli linfa, leggi soldi. Oggi quel progetto è praticamente un cantiere infinito, fermo e per niente frequentato. Inutile dire che dopo il no del governo questa fantasmagorica città dello sport di Tor Vergata rimarrà un’inutile chiazza di acciaio e cemento, inutile perché inutilizzata, non perché antiestetica. Molti analisti sono convinti che un evento di portata olimpica aumenti solo la spesa pubblica dello Stato che lo ospita: cio è vero ma non bisogna tralasciare il fatto che queste enormi manifestazioni sportive portano con sé un generale miglioramento delle infrastrutture. Basti pensare ai mondiali di calcio del 1990 e a come Roma - al pari di Bari, Milano, Torino, Napoli ecc. - aumentò la sua capacità di traffico, di accoglienza e di mobilità, pur con tutti gli errori del caso, dovuti perlopiù all’affarismo politico che in Italia è regola sine qua non. Al di là di tutte queste chiacchiere resta il fatto che l’Italia, ottava potenza industriale del mondo, non può permettersi nemmeno l’organizzazione delle olimpiadi estive. Poi leggo "Due città" di Elena Croce (1915-1994) e mi rendo conto che la morte di quella Roma artigiana e artigianale di un tempo era già stata certificata da questa valente scrittrice napoletana, con dovizia di particolari. Manca a Roma e all'Italia una élite intellettuale in grado non dico di attuarlo ma almeno di pensarlo, il cambiamento. Non ci resta che attendere l’esito della candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024: un nuovo capitolo da scrivere, talmente nuovo da apparire già vecchio. Ennesima ermeneutica dell'incompiuto.

Elena Croce (1985), Due città, Adelphi, Milano, pp. 106

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