lunedì 6 luglio 2015

"L'Infanta sepolta" e "La casa madre"


Negli occhi ingenui dei bambini curiosità, grazia e stupore. Vedono cose che non esistono, persone che non ci sono più frammischiate a esseri immaginari, e a credergli si rischia di passar per pazzi. Ma quando un adulto conserva quella visione pura e scanzonata, allora sì che la vista del mondo può diventare scintillante. È il caso della silloge de "L’Infanta sepolta" (1950) della mediterranea Anna Maria Ortese (1914-1998), in cui ogni racconto è storia immaginifica - di un angelo, un dio, un padre, un signore - quasi sempre all’altezza d’una ragazzina. C’è l'adorata Napoli, luminosa e adagiata sul golfo, abitata da un popolino povero e regale, e poi ci sono queste pillole di grazia che la Ortese, in un linguaggio tutt’altro che comune, dispensa come fossero caramelle. L’autrice pare timorata di Dio se non fosse per quella vena surreale, a tratti panteistica, che affiora tra le pagine di queste novelle. Al pari, anche Letizia Muratori (1972), con gli occhi di bambini curiosi e pettegoli, presentò nel 2008 due amabili storielle ne "La casa madre". Dapprima una bambina alle prese con una bambola in un caleidoscopio di disavventure scolastiche e drammi familiari, poi un bambino troppo invadente ma genuinamente affezionato alle sue eroine puttane, finché il colpo di scena finale ruberà al lettore un ampio sorriso tra ironia e amarezza. Bambini, quindi. Esserini sacri, a volte trattati come bestie o, peggio, come oggetti da genitori tossici, preti perversi, maestri violenti, stronzi. Nei libri di queste due valenti scrittrici l’universo bambino si scrolla di dosso tutte le cronache torve di questo secolo per giungere alle sue origini, dove il valore primo qualificante è proprio la grazia divina.

Anna Maria Ortese (2000), L’Infanta sepolta, a cura di M. Farnetti, Adelphi, Milano, pp. 196
Letizia Muratori (2008), La casa madre, Adelphi, Milano, pp. 114


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