venerdì 7 agosto 2015

"Il pendolo di Foucault"


Ho letto "Il pendolo di Foucault" di Umberto Eco (1932) e l’approccio filosofico del grande semiologo alessandrino bene s’inserisce nel dialogo teologico contemporaneo sull’esistenza di Dio. Penserete che contemporaneo sia un aggettivo che mal s’addice a un dibattito del genere ma siccome è nei fatti, dunque non ancora concluso, non possiamo utilizzare il termine moderno, che implica il passaggio ad una nuova epoca. Torniamo a noi. Dalla lettura del succitato libro, mi ha colpito l’unicità del punto che sostiene il pendolo, che per chi non lo sapesse rappresenta il nucleo della teoria pubblicata nel 1851 dal fisico francese Jean Bernard Léon Foucault (1819-1868) e messa in pratica nel celebre esperimento che vede un enorme pendolo abbattere dodici birilli posizionati a terra in cerchio, dimostrando definitivamente la rotazione della Terra. La grandezza dell’esperimento di Foucault non risiede tanto nella prova pratica, di per sé sbalorditiva, quanto nel fatto che il pendolo, altissimo per rendere nullo l’attrito dell’aria - assieme a dei magneti -, sia fissato al soffitto con un perno, producendo conseguentemente un dilemma pernicioso: se il pendolo dimostra la rotazione della Terra allora anche il punto al quale è agganciato ruota. Per uno che non è fisico né matematico, né tantomeno filosofo, questo potrebbe essere l’ennesimo rompicapo dell’uovo e della gallina, o del treno e del viandante (è tutta una questione di punti di riferimento, come sempre), ma i rompicapi non mi piacciono e ciò che conta sta in quell’unico punto fisso. Il motivo di tanta stupida e stupita curiosità è perlopiù spirituale; e per entrare nel mondo della spiritualità non servono lauree o dottorati, ma bisogna semplicemente liberarsi dei postulati, delle teorie e della logica raziocinante, per indirizzarsi verticalmente sulla propria esistenza ed essenza. Se assumiamo il pendolo di Foucault come l’esperimento che più di tutti prova la rotazione terrestre, prendiamo coscienza del fatto che tutti noi - ora come sempre, qui come ovunque - ci stiamo muovendo, e con noi l’intero firmamento. Invece quel punto è fermo, esso è l’unico punto fermo in tutto l’universo, è il motore immobile. La tanto agognata fonte di tutte le cose è a portata di naso, ad alcuni metri dal visitatore, in linea retta, verso l’alto, come sempre si è letto nei libri sacri e creduto nelle liturgie. Eppure il punto di quel pendolo non è l’unico, perché di pendoli sferici ce ne sono diversi nel mondo: ad esempio, io lo conobbi al Museo de las Cièncias di Valencia. Ad un livello spirituale ancor più elevato scopriamo dunque che quel punto fermo nell’universo può essere qualsiasi punto intorno a noi, possiamo essere noi. Le prove dell’inesistenza di Dio hanno sempre pagato lo scotto di cercare Dio fuori, altrove, sopra, al di là. La Chiesa, dal canto suo, L’ha sempre indagato nella Sua veste ora rituale e formale, ora grottesca e anatomica, a partire dalla dissezione dei santi. La teoria del pendolo invece sconfessa l’ateismo e conferma che il Demiurgo è ovunque. Il pensiero di Dio, al pari della rotazione terrestre, dunque, esiste: cogito ergo Deus est.

Umberto Eco (1988), Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano, pp. 509

giovedì 6 agosto 2015

"Vite di Paolo, Ilarione e Malco"


Agli albori del cristianesimo tre eremiti d’oriente, Paolo, Ilarione e Malco, hanno vissuto Dio con esasperante misticismo, leggenda e totale distaccamento dalle passioni terrene. Terminato il Medioevo, in pieno Seicento, troviamo invece Giuseppe da Copertino (1603-1663), vero anticipatore di quella estetica dell’oltre che tanto fortemente sta segnando l’epoca nostra. Il religioso visse una mistica profondissima che lo portò all’estasi ripetute volte; cominciò con la levitazione e giunse a compiere voli, tanto da meritarsi il patronato degli aviatori. Ma Giuseppe è anche qualcosa di più. Al di là della mera prestidigitazione religiosa, il santo venerò e fu venerato in modo fanatico. La sua adorazione per la Madonna lo spinse a desiderare così tanto una Sua icona per il convento in cui viveva che quando la ebbe tra le mani la distrusse, consapevole ormai che venerava più il feticcio che non la Madonna stessa. Esempio, dunque, di grande rigore religioso, ma anche di gretta iconoclastia. Alla sua morte, d’altronde, il corpo venne subdolamente esposto al pubblico e la calca giunta in cattedrale per vederlo o toccarlo fu tale che scoppiò un incendio, tanto che quel ludibrio funebre si trasformò in una carneficina umana: il contenitore terreno di Giuseppe da Copertino si salvò miracolosamente eccetto un dito e il cuore, asportati da qualche fanatico di reliquie. La sua intera parabola è quindi da ascrivere pienamente alla fenomenologia religiosa, ma in essa si trovano alcune importanti similitudini con l’esaltazione dei simulacri odierni, siano essi rockstar, opere d’arte, religioni e ideologie, informazioni in broadcasting. Non v’è forse lo stesso fanatismo iconoclasta dietro le morti di Michael Jackson, Amy Winehouse o Whitney Houston? Non v’è forse quella stessa ferrea e ostinata e medievale credenza nelle notizie provenienti da internet? Non v’è forse la stessa feroce bestialità dietro gli scempi mediatici di Novi Ligure, Cogne, Avetrana o Garlasco? Non v’è forse lo stesso fanatismo vecchio di millenni dietro gli attacchi kamizake e le disumanità dell’ISIS? Da come la storia sembri ripetersi e con quale sorprendente periodicità, si potrebbe giungere alla conclusione che la storia stessa nemmeno esista. E allora bisognerebbe capire che è la materia umana a reiterarsi nel tempo, simile a se stessa dai secoli dei secoli, da (per) sempre. Giuseppe da Copertino non ebbe mai l’accortezza di distinguere il falso dal vero, per via della sua mistica cristallina, in un’epoca in cui il figlio del contadino era contadino e quello del conte, per sillogismo, conte. Figuriamoci poi se Dio non manteneva le promesse e non concretizzava le minacce iscritte nei libri sacri! Oggi, abbandonata l’irrazionalità tipica dei monoteismi, come i tre monaci raccontati da san Girolamo - che non si lasciavano tentare dalle meretrici - si dovrebbero riportare il gusto e l’estetica ad Eros, piuttosto che proseguire sulla strada del porno. Se la misura delle cose non verrà ricercata alla svelta sarà legittimo pensare che questa civiltà, la nostra, sia davvero giunta all’ultima stazione.

San Girolamo (1975), Vite di Paolo, Ilarione e Malco, trad. di G. Lanata, Adelphi, Milano, pp. 146

mercoledì 5 agosto 2015

"Dieci"


Uno dei punti più trasversali dell’Antico Testamento è quello riguardante i dieci comandamenti. Cristiani ed ebrei, atei ed agnostici, teologi ed esegeti, anticlericali ed anarchici, ognuno ha trovato qualcosa da imparare, secondo una propria interpretazione, dalla storia delle tavole della legge dettate direttamente da Dio a Mosè sul monte Sinai. Una delle esposizioni più affascinanti mi è sempre parsa quella di Fabrizio De André (1940-1999) nella celebre "Il testamento di Tito" (1970) dove il cantautore genovese dà voce al ladrone Dismas che, condividendo l’agonia con Nostro Signore, dichiara di aver trasgredito tutti i comandamenti divini senza tuttavia aver mai procurato dolore. Il brano deandreiano si conclude così: «Io nel vedere quest’uomo che muore, / madre, io provo dolore. / Nella pietà che non cede al rancore, / madre, ho imparato l’amore». Se nella versione biblica i comandamenti sono utilizzati come regola minima per la società, in quella di De André le dieci leggi hanno un esito di redenzione e lasciano trasparire la speranza di una qualche salvezza per il malfattore di turno. Ora abbiamo anche quella di Andrej Longo, scrittore ischitano classe '59, che in "Dieci" romanza altrettante storie di vita quotidiana nella Napoli odierna: su tutte regnano incontrastati il crimine, la miseria, l’illegalità, il vizio, la prevaricazione, il misfatto. L’esegesi laica di Longo è, ahimé, priva di salvazione. I suoi personaggi sguazzano nella malavita e, se pure tentano di sfuggire al destino criminoso, ne vengono prima o poi risucchiati dentro: il giovanotto per difendere la fidanzata, il cantante neomelodico per aver sognato troppo, il ragazzino per concludere l’agonia della mamma, il cameriere disgraziato che non si decide mai, e poi il ladruncolo, il boss di quartiere o la ragazza che va ad abortire. Tutta un’umanità che fa i conti con i propri problemi e con l’ambiente in cui vive, ma soprattutto col prossimo che, a quanto pare, è lontano anni luce dalle formule che le religioni del mondo hanno cercato di far valere. Un'umanità che sembra davvero un unico enorme cumulo di monnezza, un letamaio dal quale - De André ci scuserà - non fiorisce un bel niente.

Andrej Longo (2007), Dieci, Adelphi, Milano, pp. 144

lunedì 3 agosto 2015

"L'eredità di Eszter" e "Il gabbiano"


Lo stile è il distintivo di ogni artista. Esso è la forma che ricopre il contenuto. Più rare volte ne è il contenuto stesso, come se l’eleganza del tratto, l’istinto del gesto, l’artigianalità del vestito fossero imprescindibili dall’autore che, all’infuori dello stile, non potrebbe e non riuscirebbe a vivere e lavorare. Quello di Sándor Márai (1900-1989) è peculiare a lui solo, nella delicatezza delle forme letterarie e delle tematiche affrontate. Le trame che predilige prendono sempre il largo da un lungo dialogo fra due protagonisti per poi snodarsi attraverso ricordi, reperti, ritorni e speranze, spesso disilluse dalla velocità e caducità del quotidiano. Nei libri qui recensiti abbiamo due vecchi amori ritrovati, entrambi non corrisposti o corrisposti a metà. Il primo, quello della sensibile Eszter per Lajos, un irresistibile millantatore che ha ridotto in miseria la famiglia della donna e che torna per prendersi quel poco che resta; l’altro, quello di un alto consigliere di stato, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, per la finlandese Aino, che gli fa tornare alla mente Ilona, il grande amore, morta suicida anni addietro. "L’eredità di Eszter" (1939) è un romanzo meraviglioso, soave, indipendente, un gioiellino che va posto sul medesimo ripiano dei grandi classici maraiani, tra la perfezione di "Divorzio a Buda" (Adelphi, 2002) e la magnificenza de "Le braci" (Adelphi, 1998); "Il gabbiano" (1948), certamente meno brillante, si pone come romanzo minore, forse perché troppo surreale, una sorta di esercizio di defaticamento dopo i migliori anni della produzione di capolavori. L’estetica borghese di Márai, nitida ed indiscutibile, avvolge il lettore nelle spire di amori che non sembrava potessero aver ostacoli di fronte a sé, e che invece non sono mai esplosi nel firmamento dei grandi sentimenti: Eszter che rinuncia a Lajos per questioni familiari e il severo consigliere di stato che si scioglie di fronte ai rimasugli di un antico inglorioso amore. Dicevamo in apertura che lo stile è spesso la sostanza dell’artista, che ne rappresenta l’esistenza stessa. Cosa dire allora di Sándor Márai, l’esule ungherese che, dopo aver scritto pagine indimenticabili, oramai invecchiato, all’indomani della morte dell’amata moglie, finirà suicida con un colpo di pistola? È forse questo l’elemento probante che gli conferisce il carattere di uomo autentico, di grande, integro e sontuoso stile.

Sándor Márai (1999), L’eredità di Eszter, trad. di G. Bonetti, Adelphi, Milano, pp. 137
Sándor Márai (2011), Il gabbiano, trad. di L. Sgarioto, Adelphi, Milano, pp. 163


mercoledì 29 luglio 2015

"Ti-Jean e i suoi fratelli / Sogno sul Monte della Scimmia"


Il premio Nobel Saul Bellow (1915-2005), durante un’intervista al The New Yorker nel 1988, asserì che: «Quando gli zulù produrranno un Tolstoj, lo leggeremo». Quest’affermazione, dopo l’11 settembre 2001, ha letteralmente fatto impazzire di gioia coloro che credono nella superiorità della cultura occidentale rispetto a tutte le altre. Baccagliare su quanto razzismo sia insito in quest’asserzione è un gioco che chi scrive non vuol giocare. Di per sé esaustiva, la testimonianza bellowiana omette comunque un’incontrovertibile verità: che nella società occidentale sono comunque pochissimi i Tolstoj. La letteratura di matrice africana è certamente più scarna di quella americana che è a sua volta più esile di quella europea (tedesca, francese e italiana su tutte), eppure c’è Derek Walcott (1930), scrittore santaluciano insignito nel 1992 del premio Nobel, del quale ho appena finito di leggere due opere teatrali pubblicate nel 1993 da Adelphi. Dalla poetica di Walcott emerge un universo fatto di elementi religiosi arcaici e di confessioni importate, il tutto in un’ottica dicotomica tra il negro e il bianco. Sta di fatto che nelle sognanti pagine di “Ti-Jean e i suoi fratelli” (1958) e “Sogno sul Monte della Scimmia” (1967) non c’è astio o recriminazione alcuna. I poveri creoli di Walcott sono esseri umani creduloni, mistici, meschini o eroici tanto quanto i personaggi di un poema greco. Il cosmo onirico nel quale i personaggi abitano e agiscono è sempre un luogo esotico pervaso dalla dominazione europea, anche se gli elementi dell’una e dell’altra cultura non sono in lotta tra loro, ma creano una sorta di frattura ingranata nella quale i due frammenti si incastrano alla perfezione, pur restando distinti: il timore di Dio, l’esistenza del maligno, i culti sincretici africani, la simonia, i negro spirituals, l’amore filiale.

Derek Walcott (1993), Ti-Jean e i suoi fratelli - Sogno sul Monte della Scimmia, trad. di A.P. Steele & F. Steele, Adelphi, Milano, pp. 176

venerdì 24 luglio 2015

"L'uomo che amava i bambini"


Leggevo "L’uomo che amava i bambini" (1940) di Christina Stead (1902-1983) quando a pagina 75 mi sono imbattuto nella seguente affermazione del protagonista Samuel, puritano ed utopista capofamiglia dei Pollit: «Forse già il piccolo Tomtom potrà vedere il tempo in cui saranno finite le ultime guerre e ci saranno gli Stati Uniti d’Europa e gli uomini non saranno più nascosti agli uomini loro fratelli da quella nube d’incomprensione generata dall’odio». In questo frammento è praticamente sintetizzata la Paneuropa del conte Coudenhove-Kalergi (1894-1972) idealizzata a partire dal 1922. Quasi un secolo dopo gli osservatori più attenti avvertono l’esigenza di un’Europa forte, coesa ed efficiente per far fronte alle sfide della crisi economica e per tener testa, in campo internazionale, alla costante emersione di nuovi colossi come Cina, India e Brasile. Ora più che mai preme affermare che la crisi che dal 2008 attanaglia l’Europa - la Grecia in particolare - sarà uno dei più importanti spartiacque nella storia dell’integrazione europea. La condizione sociale globale in cui uscirà l’UE da questa depressione della produzione e dell’occupazione sarà la miccia della sua disgregazione o della sua definitiva legittimazione. Sopravvivere uniti alla crisi significa legittimare l’euro come valuta forte ed attrarre contemporaneamente stati che sinora hanno utilizzato nei suoi confronti una politica attendista: Regno Unito, Svezia e Danimarca. Accanto alla questione puramente tecnocratica, sono ugualmente convinto che l’Europa debba finalmente compiere quel salto di qualità che troppo a lungo è stato rimandato: federarsi. Prendendo in prestito, con scarsa creatività, la definizione di Stati Uniti d’Europa, voglio qui sottolineare come il progetto federale sia rimasto l’unica via percorribile dai ventotto Membri per sopravvivere nel mondo odierno e per tornare al centro della vita politica, economica e culturale internazionale. Federazione che non rappresenta una semplice delega della propria sovranità ad istituzioni sovranazionali, bensì uno sforzo comune, certamente artificiale, affinché i cittadini di tutti i Paesi dell’Europa diventino finalmente cittadini europei. Portata a compimento l’unione monetaria bisogna quindi correre verso il traguardo dell’unione economica, per poter completare l’iter con l’unione federale. Ed è qui che entra in gioco quella ramificazione della società civile tanto biasimata: la politica, come polis ethica. Bisogna ovvero capire se le attuali leadership statali siano convinte dell’artificio federale e soprattutto quali e quante competenze abbiano per concretarlo. Mi viene dunque in mente, accanto a quella del già citato conte austriaco, la figura di Altiero Spinelli (1907-1986), federalista radicale dal passato comunista, precursore di quanto detto sinora, un politico colto e onesto, progettista appassionato dell’Europa. A chi possiamo affidare oggi il ruolo che fu di Spinelli? Infine, per quanto riguarda il suddetto libro, l'ho trovato tragico, difettoso, commovente, lento, bellissimo.

Christina Stead (2004), L’uomo che amava i bambini, trad. di F. Bossi, Adelphi, Milano, pp. 561

giovedì 16 luglio 2015

"Due città"


Il professor Monti disse no alle olimpiadi romane del 2020. Il modo, apparentemente sgarbato e superficiale, diede parecchio fastidio soprattutto al primo cittadino di allora, tale Gianni Alemanno. La realtà è che l’Italia non poteva - e forse non può - permettersi nemmeno un’olimpiade. Una verità dura da digerire. Una velleità. Troppo fresca è la ferita di Atene, impelagatasi in un evento sportivo troppo grande e dispendioso, che, senza ombra di dubbio, ha velocizzato lo sfascio economico del Paese ellenico. Ciò che più mi angoscia oggi è assistere all’ennesimo spreco di fondi e infrastrutture nella Città Eterna. Abito nel Parco di Torre Gaia e dal mio balcone è visibile a 360° tutto il campus di Tor Vergata, al centro del quale campeggia l’enorme croce voluta da Giovanni Paolo II per il Giubileo del 2000. Zona lussureggiante, parallela all’A1, con una linea di metropolitana nuova di zecca (anch’essa figlia di lungaggini e sprechi unici al mondo) e con 200.000 cittadini residenti - a cui vanno aggiunti gli abitanti dei Castelli Romani, numerosissimi e vicinissimi. Fu proprio a partire da quel Giubileo che la municipalità di Roma si mise in testa di far le cose in grande stile, alcune davvero troppo ingombranti. E proprio in quel campus, in occasione dei mondiali di nuoto del 2009 doveva esser pronta una città dello sport, avveniristica sulla carta e dallo spiccato gusto estetico, opera di un archistar internazionalmente riconosciuta come Santiago Calatrava. Alla fine, come spesso accade dalle nostre parti, il cantiere rimase aperto e i mondiali di nuoto dovettero svolgerli ancora una volta al Foro Mussolini. Nonostante ciò, i politici romani non si rassegnarono. Certi di una candidatura di Roma ai Giochi della XXXII Olimpiade - e quindi di una facile vittoria ai danni di Madrid, Baku, Doha, Tokyo e Istanbul - lasciarono in piedi il progetto di Calatrava e continuarono a dargli linfa, leggi soldi. Oggi quel progetto è praticamente un cantiere infinito, fermo e per niente frequentato. Inutile dire che dopo il no del governo questa fantasmagorica città dello sport di Tor Vergata rimarrà un’inutile chiazza di acciaio e cemento, inutile perché inutilizzata, non perché antiestetica. Molti analisti sono convinti che un evento di portata olimpica aumenti solo la spesa pubblica dello Stato che lo ospita: cio è vero ma non bisogna tralasciare il fatto che queste enormi manifestazioni sportive portano con sé un generale miglioramento delle infrastrutture. Basti pensare ai mondiali di calcio del 1990 e a come Roma - al pari di Bari, Milano, Torino, Napoli ecc. - aumentò la sua capacità di traffico, di accoglienza e di mobilità, pur con tutti gli errori del caso, dovuti perlopiù all’affarismo politico che in Italia è regola sine qua non. Al di là di tutte queste chiacchiere resta il fatto che l’Italia, ottava potenza industriale del mondo, non può permettersi nemmeno l’organizzazione delle olimpiadi estive. Poi leggo "Due città" di Elena Croce (1915-1994) e mi rendo conto che la morte di quella Roma artigiana e artigianale di un tempo era già stata certificata da questa valente scrittrice napoletana, con dovizia di particolari. Manca a Roma e all'Italia una élite intellettuale in grado non dico di attuarlo ma almeno di pensarlo, il cambiamento. Non ci resta che attendere l’esito della candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024: un nuovo capitolo da scrivere, talmente nuovo da apparire già vecchio. Ennesima ermeneutica dell'incompiuto.

Elena Croce (1985), Due città, Adelphi, Milano, pp. 106

martedì 14 luglio 2015

"Sono il fratello di XX" e "La passione"


«Osservare gli altri è sempre interessante. In treno, negli aeroporti, nei convegni, mentre si fa la fila, mentre si è seduti in due a un tavolo; insomma in ogni occasione dove scorrono gli esseri. Anche a chi non viaggia o è molto solo capiterà di uscire per una mezz’ora in strada. E di osservare un gatto terribilmente assorto e vigile nel puntare la preda. O nell’artigliarla. […] Quando ha raggiunto il bersaglio, all’improvviso il gatto si distrae. Gli etologi chiamano questo movimento Übersprung. Avviene poco prima del colpo mortale». Così l’elvetica Fleur Jaeggy (1940), tanto capziosamente quanto impercettibilmente, definisce in "Gatto" il proprio stile di scrittura, praticamente tutto uno svicolamento dai canoni convenzionali. Qui abbiamo superato sia la scrittura libera che il flusso di coscienza. Nei racconti contenuti in "Sono il fratello di XX" c’è la Jaeggy di sempre, quella che dai dettagli in apparenza insignificanti riesce a costruire mondi e universi paralleli, nelle cui fondamenta v’è sempre uno scheletro di solitudine. Fleur Jaeggy cita anche Djuna Barnes (1892-1982), una scrittrice statunitense troppo poco conosciuta per lo stile innovativo e fin troppo acclamata per i trascorsi familiari. I suoi racconti non proprio stringati contenuti ne "La passione" hanno molti punti in comune con quelli di "Sono il fratello di XX", se non fosse per quella vena più marcatamente esistenzialista della Barnes. La Übersprung delle due notevoli scrittrici sta proprio in quell’improvviso e temporaneo allontanamento dagli aspetti pratici della vita, come un suicida che, dopo essersi gettato da un ponte altissimo, si accende una sigaretta durante il volo.

Fleur Jaeggy (2014), Sono il fratello di XX, Adelphi, Milano, pp. 129
Djuna Barnes (1980), La passione, trad. di L. Drudi Demby, Adelphi, Milano, pp. 122


mercoledì 8 luglio 2015

"Futilità" e "La sovrana"


La rivoluzione, la libertà, l’uguaglianza, tutte cose molto belle già per il semplice fatto di nominarle. In realtà l’avvento di cambiamenti così drastici all’interno di una società iniqua, se da una parte assicura maggiori diritti a classi sociali via via più estese, dall’altra esautora e svilisce - più spesso abbatte o massacra - le classi che rappresentavano quella stessa società. E non intendiamo qui soltanto i sovrani o gli aristocratici o gli sfruttatori, ma anche e soprattutto la piccola e media borghesia che, come nel caso russo all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, andò incontro alla rovina più nera. Nell’occidente abbacinato dal mito della rivoluzione bolscevica sono tantissimi i riferimenti letterari a quel mondo utopico e reale a un tempo, come se l’URSS fosse un Bengodi socialista per il corpo e lo spirito; tuttavia dalla Russia stessa cominciarono a provenire, nell’era della distensione crusceviana, le prime legittime rimostranze verso lo stato totalitario e lo strumento da esso utilizzato per garantire la pace sociale: il gulag. Fra questi due antipodici fuochi v’è un misconosciuto scrittore inglese nato a San Pietroburgo, William Gerhardie (1895-1977), che ha raccontato la Russia sovietica negli occhi di un imprenditore minerario e di come i bolscevichi lo abbiano praticamente messo in mutande. "Futilità" (1922), lo dice il titolo, è proprio l’atteggiamento di questa famiglia - allargata all’inverosimile, poiché tutti dipendono dal reddito del capofamiglia - vieppiù attaccata alle insulsaggini borghesi, a quelle sacrosante futilità che la collettivizzazione ha sradicato. È come se la rivoluzione leninista abbia sacrificato sull’altare dell’eguaglianza il diritto ad essere banali, soddisfatti, realizzati. La vita degli esuli russi in terra di Francia è invece il nucleo narrativo de "La sovrana" (1932) di Nina Berberova (1901-1993), anch’ella pietroburghese. La famiglia ritratta dalla Berberova è diventata già una cellula sociale spaiata, le cui futilità sono le stesse di oggi: l’amore, l’università, la carriera, la convivenza, i rapporti familiari. Le vite raccontate in questi due libri non sono fotoromanzi tant’è che non terminano all’ultima pagina. Gerhardie e la Berberova ci forniscono gli elementi per cercare di comprendere, ci offrono un assaggio di cosa sono stati i russi e la Russia al di là d’ogni stereotipo. A noi, a voi, sta la possibilità di farsi un’opinione.

William Gerhardie (2003), Futilità, trad. di G. Celati, Adelphi, Milano, pp. 231
Nina Berberova (1996), La sovrana, trad. di M. Calusio, Adelphi, Milano, pp. 134


lunedì 6 luglio 2015

"L'Infanta sepolta" e "La casa madre"


Negli occhi ingenui dei bambini curiosità, grazia e stupore. Vedono cose che non esistono, persone che non ci sono più frammischiate a esseri immaginari, e a credergli si rischia di passar per pazzi. Ma quando un adulto conserva quella visione pura e scanzonata, allora sì che la vista del mondo può diventare scintillante. È il caso della silloge de "L’Infanta sepolta" (1950) della mediterranea Anna Maria Ortese (1914-1998), in cui ogni racconto è storia immaginifica - di un angelo, un dio, un padre, un signore - quasi sempre all’altezza d’una ragazzina. C’è l'adorata Napoli, luminosa e adagiata sul golfo, abitata da un popolino povero e regale, e poi ci sono queste pillole di grazia che la Ortese, in un linguaggio tutt’altro che comune, dispensa come fossero caramelle. L’autrice pare timorata di Dio se non fosse per quella vena surreale, a tratti panteistica, che affiora tra le pagine di queste novelle. Al pari, anche Letizia Muratori (1972), con gli occhi di bambini curiosi e pettegoli, presentò nel 2008 due amabili storielle ne "La casa madre". Dapprima una bambina alle prese con una bambola in un caleidoscopio di disavventure scolastiche e drammi familiari, poi un bambino troppo invadente ma genuinamente affezionato alle sue eroine puttane, finché il colpo di scena finale ruberà al lettore un ampio sorriso tra ironia e amarezza. Bambini, quindi. Esserini sacri, a volte trattati come bestie o, peggio, come oggetti da genitori tossici, preti perversi, maestri violenti, stronzi. Nei libri di queste due valenti scrittrici l’universo bambino si scrolla di dosso tutte le cronache torve di questo secolo per giungere alle sue origini, dove il valore primo qualificante è proprio la grazia divina.

Anna Maria Ortese (2000), L’Infanta sepolta, a cura di M. Farnetti, Adelphi, Milano, pp. 196
Letizia Muratori (2008), La casa madre, Adelphi, Milano, pp. 114


venerdì 3 luglio 2015

"L'impronta dell'editore" e "Cento lettere a uno sconosciuto"


Aldo Manuzio (1449-1515) è stato un umanista italiano, il primo vero editore della nostra penisola. Per i suoi tipi - oggi roba da collezionisti e intenditori - sono usciti, a partire dal 1494, diverse opere di Tucidide, Aristofane, Erodoto, Platone, Aristotele, Sofocle ed Euripide, perfettamente in linea con lo Zeitgeist umanistico, teso a riscoprire i gioielli della drammaturgia, della letteratura e della filosofia precristiane. Ma c’è una pubblicazione su tutte che sembra stonare e che invece segna il passo della tipografia Manuzio: la "Hypnerotomachia Poliphili" (1499), romanzo allegorico scritto forse da un certo Francesco Colonna. È questo il libro che fa letteralmente impazzire Roberto Calasso (1941), oggi direttore editoriale di Adelphi dopo un’epica gavetta al fianco di Bobi Bazlen (1902-1965). Il nostro critico/scrittore/editore è convinto che una casa editrice, per definirsi tale, non deve limitarsi a pubblicare libri, fiutando il talento degli scrittori o sui consigli di qualche avveduto agente letterario, bensì ha l’onere di creare una forma, unica e irripetibile, una configurazione che sia qualcosa di consustanziale col contenuto dell’opera. Più che una ideologia, una religione. Calasso, ne "L’impronta dell’editore", parla delle origini di Adelphi - la sua Chiesa - e di come questa abbia cercato di sollevare dai fanghi della storia la letteratura germanofona di fine Ottocento, tutto il mondo onirico e surreale di certi sconosciuti prosatori, testi più o meno sacri delle religioni del mondo e altri autori che lo Zeitgeist presessantottino etichettava, senza mezzi termini, come fascisti o, nel migliore dei casi, borghesi: Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger, Ernst Jünger, Konrad Lorenz, Curzio Malaparte; è sempre Adelphi che ha tradotto e pubblicato in Italia Georges Simenon, Joseph Roth, Irène Némirovsky, J.R.R. Tolkien, Mordecai Richler o Emmanuel Carrère. Un’altra scelta operata da Calasso, tesa a far collimare estetica e sostanza, è quella del risvolto - un’arte vera e propria -, nel quale l’editore affronta i nodi del libro che si appresta a presentare al pubblico come avulsi dal libro stesso: non a caso i temi adelphiani sono sempre coessenziali alla realtà. Calasso ne ha dunque selezionati un centinaio per le sue "Cento lettere a uno sconosciuto". Le sfide del futuro sono tante per chi guida un’azienda del genere ma il libro, al pari del disco, non perderà la sua materia; non sentiremo mai la mancanza dei libri, semplicemente perché mai spariranno. E una parte del merito dovremo riconoscerla ad Adelphi.

Roberto Calasso (2013), L’impronta dell’editore, Adelphi, Milano, pp. 164
Roberto Calasso (2003), Cento lettere a uno sconosciuto, Adelphi, Milano, pp. 236


mercoledì 1 luglio 2015

"Il dottor Semmelweis" e "La persuasione e la rettorica"


Quello accademico è un percorso che tutti dovrebbero fare, qualsiasi strada vogliano intraprendere in futuro. Oltre alla certificazione di determinate specializzazioni, esso permette di aprire la mente ai problemi circostanti, rifuggendo semplificazioni, banalizzazioni ed astrazioni. Ma l’università, a ben vedere, non è per tutti: non è una questione di intelligenza ma di applicazione, metodo e serietà. E non tutti, ahimé, possiedono - o vogliono possedere - queste virtù. Alla fine di ogni corso universitario c’è il momento impegnativo e felice della compilazione d’una tesi su un argomento specifico, da svolgere su indicazione e sotto l’egida di un professore ordinario. Ma cos’ha in comune Adelphi con Louis-Ferdinand Céline (1894-1961) e Carlo Michelstaedter (1887-1910)? Molto, poiché tra il 1975 e il 1982 ha pubblicato le rispettive tesi di laurea dei due scrittori. Quella di Céline (1924), studente di medicina, era incentrata sulla figura di Ignác Semmelweis (1818-1865); quella di Michelstaedter (1910), studente di lettere, sui concetti di persuasione e retorica in Platone e Aristotele. Prima dell’apoteotico "Viaggio al termine della notte(1932) e prima ancora dei pamphlet antisemiti, Céline si occupò di colui che, con una semplice ma geniale intuizione, rivoluzionò l’ostetricia, lasciandoci un ritratto impietoso di ciò che dovevano essere in un passato non troppo remoto i reparti ospedialieri tra le cui mura le donne gravide morivano come niente fosse, per stupide infezioni dovute alla scarsa igiene dei dottori. Semmelweis pensò giustamente di obbligare tutti gli ostetrici a disinfettare accuratamente le mani prima di ogni parto: inutile dire che da allora la mortalità infantile e quella delle puerpere si è drasticamente ridotta. Michelstaedter, a differenza di Céline, non discusse mai la sua tesi poiché, non appena terminatane la stesura, si sparò. Uomo inquieto, ha riversato in questo folgorante scritto tutta l’incapacità di superare la rettorica, quell’insormontabile cumulo di historia oltre il quale v’è, magnifica e inoppugnabile, la persuasione, ovvero la completezza, la vera libertà, il nirvana. "Il dottor Semmelweis" e "La persuasione e la rettorica" sono i rispettivi autoscatti di due falliti, antieroi del pensiero, fotografati nel periodo della giovinezza, quando le forze fisiche e intellettuali, nella maggior parte delle persone, stanno pian piano prendendo vigore. In loro due, queste forze erano già esplose, come una biglia che, dall’alto d'un piano inclinato, ha raggiunto il massimo dell’energia cinetica e non attende altro che terminare la sua folle corsa.

Louis-Ferdinand Céline (1975), Il dottor Semmelweis, trad. di O. Fatica & E. Czerkl, Adelphi, Milano, pp. 134
Carlo Michelstaedter (1982), La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano, pp. 212


venerdì 26 giugno 2015

"Limonov" e "L'affare Kurilov"


Due personaggi, entrambi russi; il primo realmente esistito e vivente, il secondo di pura fantasia, però verosimile; uno nato in epoca sovietica tanto da averne conosciuto e pianto la fine, l’altro, rappresentante dello zarismo, vissuto a cavallo della rivoluzione d’Ottobre. Eduard Savenko (1943), conosciuto come Limonov, è poeta scrittore nazional-stalinista, uccello del sottobosco moscovita, fondatore dei tanto temuti nazbol, allevato nel mito della Battaglia di Stalingrado e quindi diventato un acerrimo nemico dei grigi governi sovietici, tanto da meritarsi la dicitura di «elemento antisociale, fermamente antisovietico», che lo costringerà all’esilio e, di conseguenza, lo porterà prima nella plastificata New York di Andy Warhol, nella pasciuta Parigi e tra le linee di guerra balcaniche (a fianco dei cetnici) e moldave (dalla parte dei transnistriani) per far poi ritorno in madrepatria come nemico giurato di Vladimir Putin. Il bohémien Ed Limonov, un perfetto Oscar Wilde novecentesco: la sua vita è stata una vera e propria montagna russa fatta di confuse ma allettanti illuminazioni politiche e un lucidissimo stile letterario e poetico, pagati al prezzo di lavori umilianti, esperienze sessuali d’ogni tipo (dallo stupro alla pederastia), fallimenti sentimentali da gettarsi fra le rotaie del treno, suicidi quasi riusciti, e poi bassifondi, galere, guerre civili, porte in faccia, porcherie da clochard. Emmanuel Carrère (1957) è genuinamente affascinato dalla figura del fascista Limonov e non fa nulla per nascondere la sua ammirazione verso quest’uomo dal passato e dal presente discutibili, in quella mistura ideologica di stalinismo, dandismo, nazionalismo, socialismo, cristianesimo ed esotismo. Un garibaldino dei giorni nostri. Di tutt’altro genere è invece la storia raccontata da Irène Némirovsky (1903-1942) ne “L’affare Kurilov” (1933): si parla qui dell’omicidio perpetrato dai rivoluzionari russi ai danni del ministro della Pubblica Istruzione Valerian Kurilov, detto Pescecane per via della sua ieraticità e per il frequente ricorso alle armi durante le manifestazioni dei bolscevichi della prima ora. In realtà il killer, che da infiltrato vivrà al fianco del ministro come medico personale, conoscerà un altro uomo, educato, innamorato della moglie - per lei getterà la carriera alle ortiche - nonché fedelissimo a Nicola II, nonostante questi nutra poca stima per la sua persona. Limonov e Kurilov: da una parte un guerrigliero sempre pronto all’azione pur di scardinare ogni struttura acquisita, dallo Stato alla società civile, dal sistema dell’editoria alle arti amorose; agli antipodi un leale ed onesto servitore della patria disposto a tutto pur di rispettare la parola data allo zar, e che vive il lavoro e la famiglia come autentiche missioni di ispirazione divina. Non possiamo non empatizzare con entrambi i personaggi che, nei differenti e grandiosi registri di Carrère e della Némirovsky, ci appaiono luminosi e ambivalenti, imperscrutabili, sbagliati ed irraggiungibili.

Emmanuel Carrère (2012), Limonov, trad. di F. Bergamasco, Adelphi, Milano, pp. 356
Irène Némirovsky (2009), L’affare Kurilov, trad. di M. Di Leo, Adelphi, Milano, pp. 192


giovedì 25 giugno 2015

"Un posto piccolo"


Jamaica Kincaid (1949) è una scrittrice, e pure brava, con all’attivo quasi venti libri. Non solo. Jamaica Kincaid è nata a Saint John’s, capitale di Antigua e Barbuda, uno di quegli stati insulari delle Piccole Antille che piacciono tanto agli italiani per trascorrerci la luna di miele o per organizzare presunte importantissime convention di lavoro che finiscono perlopiù a puttane, nel senso letterale del termine - la certezza dell’irresponsabilità è forse il miglior afrodisiaco in circolazione. Anche questo è uno dei motivi per cui Jamaica Kincaid odia i turisti, ovviamente bianchi, ed io convengo con lei. Jamaica Kincaid dice che Antigua, che appare così bella, soleggiata e felice, è in realtà una terra arida e preda della siccità, governata da ladri, spacciatori, speculatori e trafficanti d’ogni risma, e non è difficile crederle poiché la corruzione è un male endemico di questo pianeta, tanto che, più ci si sposta a meridione, più il tumore sembra inasportabile. Non è razzismo dire che la corruzione è direttamente proporzionale alla scala cromatica della pelle. Dirò di più. Jamaica Kincaid, tra i bianchi, odia soprattutto gli europei, perché sono stati loro a scoprire, dominare e colonizzare la sua isola beata, facendone un porto di attracco, scambio e vendita di schiavi africani. Sulla mercificazione umana e sulla sua industrializzazione a livello atlantico siamo tutti d’accordo: solo gli stupidi potrebbero pensarla diversamente dal sentire comune, ovvero dal provare vergogna per ciò che è stato dal XVI al XIX secolo. Insomma, Jamaica Kincaid ha ragione un po’ su tutto nel risentito "Un posto piccolo" (1988), ma sembra proprio che abbia commesso un imperdonabile errore. Nelle pagine del suo libello non v’è una sola riga su ciò che Antigua fosse prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo. La Kincaid sembra credere nell’esistenza di un Eden caraibico improvvisamente sconvolto e massacrato dai rozzi e imbellettati uomini ricchi d’occidente: prima del 1493 Antigua è un paradiso, dopo quell’anno sarà un inferno. Ecco, questo è "Un posto piccolo", un libriccino interessantissimo che svuota di senso ogni luogo comune sulle mete esotiche e sul valore del turismo. Ma, al contempo, è un libro che punta il dito esclusivamente verso noi europei razza bianca dominatrice, ma nulla imputa al popolo nativo, se non quello di essersi lasciati soggiogare dai miti neoliberali e pseudodemocratici. La verità è che se non ci fosse stato Colombo, molto probabilmente non sarebbe mai nata una Jamaica Kincaid: questo è un dato di fatto che la nostra brava scrittice deve tenere a mente, anche se il pensiero le causa bruciori.

Jamaica Kincaid (2000), Un posto piccolo, trad. di F. Cavagnoli, Adelphi, Milano, pp. 83

martedì 23 giugno 2015

"Il Monte Analogo" e "Cristallo di rocca"


La montagna la può capire solo chi la vive: questa affermazione è vera a metà. La montagna, dal punto di vista alpinistico, certo, è di chi la scala o si appresta a farlo. È anche una quotidianità difficile, tra rocce aguzze e terra brulla, prati infertili e freddo glaciale, metri di neve e isolamento totale. Ma la montagna è soprattutto un’idea e quella possono comprenderla tutti. A qualsiasi cultura apparteniate, scoprirete che la montagna ha rappresentato sempre il medium tra la terra e il cielo, le cose che stanno in basso e quelle che stanno in alto, tra l’uomo e il dio, ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Essa è il simulacro stesso della trascendenza verticale. Così è anche ne "Il Monte Analogo" (1952), l’incompiuto romanzo surreale di René Daumal (1908-1944), nel quale una spedizione di otto sognatori parte alla volta del Pacifico sud-orientale per tentare la scalata al monte più alto del mondo, un monte non tracciato su alcuna mappa, vista la curvatura spaziotemporale creata dalla sua mole. Il romanzo finisce troppo presto e a noi non resta che immaginarne l’epilogo, stante quella «metafisica dell’alpinismo» che Daumal tratteggia con somma eleganza. Un altro libro sulla montagna, di tutt’altra fattura, è quello di Adalbert Stifter (1805-1868): "Cristallo di rocca" (1845) comincia come una novella per bambini e termina come una libro per adulti. Due fratellini che si perdono sulle cime ghiacciate alla vigilia di Natale: la montagna qui è un ente cristallino da temere a rispettare, e il racconto di Stifter è - a differenza del primo - teso all’immanenza più che alla metafisica. I bambini riusciranno da soli a trarsi d’impaccio e torneranno sani e salvi in paese, tra le braccia affettuose di genitori e nonni. Sogno, leggenda, viaggio, traversie, sono questi gli ingredienti d’ogni letteratura di montagna. Vi si cimentarono René Daumal e Adalbert Stifter, lontani un secolo per stile e cultura d’appartenenza, lasciando ai posteri due immagini opposte della montagna, una filosofica, mistica, l’altra pedagogica.

René Daumal (1968), Il Monte Analogo. Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche, a cura di C. Rugafiori, Adelphi, Milano, pp. 182
Adalbert Stifter (1984), Cristallo di rocca, a cura di G. Bemporad, Adelphi, Milano, pp. 89


venerdì 19 giugno 2015

"La ballata di Peckham Rye"


Avete mai visto "Teorema" (1968) di Pier Paolo Pasolini? È un film splendido ed ermetico sulla comunicazione e sulla libertà e su come quest’ultima, allorché è pura, sia in grado di distruggere l’uomo, una distruzione che fa volentieri a meno di qualsiasi giudizio di valore. Ne "La ballata di Peckham Rye" (1960) della complicata Muriel Spark (1918-2006) troviamo un protagonista simile all’ospite pasoliniano che sconvolge la vita della famiglia di industriali milanese in "Teorema". Dougal è infatti un uomo-diavolo arrivato nel quartiere londinese di Peckham Rye con l’intenzione di trovarsi un onesto lavoro e, chissà, metter su famiglia; questo sembra in un primo momento. La sua specializzazione sono le imprecisate scienze umane, grazie alle quali riesce a farsi assumere da ben due fabbriche con lo scopo precipuo di abbattere l’assenteismo del personale e di migliorare i rapporti intraaziendali, poi si fa commissionare la redazione di una biografia e, per ultimo, innamora datori di lavoro e ragazze, procurandosi simpatie totalizzanti e antipatie altrettanto universali. Dougal è una spia, un investigatore, un millantatore o un vero demone? La storia, che pare muoversi sulle tenui risacche della ballata, viaggia in realtà su binari ipertestuali: il lettore non può far altro che seguire l’evoluzione degli eventi, sballottato qui e là dagli scossoni della Spark. Fatto sta che dove passa Dougal l’esistenza degli altri personaggi ne esce sconvolta: pianti, colpi apoplettici, risse, scappatelle, tradimenti, rifiuti sull’altare. Proprio come l’ospite pasoliniano - emanazione dell’Adorabile di Arthur Rimbaud (1854-1891) - che, dopo la sua partenza dalla villa, lascerà la famiglia in uno stato di completa entropia: dall’allontanamento del figlio al blocco catatonico di sua sorella, dall’abbandono della fabbrica da parte del padre ai facili costumi della moglie, fino alla levitazione mistica della serva. Una vita difficile quella di Muriel Spark, che l’ha resa, nolens volens, una donna altrettanto difficile, strapiena di difetti fatali.

Muriel Spark (1996), La ballata di Peckham Rye, trad. di M. Crepax & M.G. Bellone, Adelphi, Milano, pp. 155

mercoledì 17 giugno 2015

"Una biblioteca della letteratura universale" e "Per una enciclopedia di autori classici"


Moltissimi amanti della lettura, negli attacchi di nostalgia, ripetono l’antico adagio secondo cui librerie e biblioteche hanno ormai vita breve. Colpa dell’ebook, della televisione, di internet, della politica, della scuola ecc. Non c’è più rispetto, dicono, per il libro, per la pagina scritta, per la cultura in generale, assumendo quindi che la cultura sia perlopiù quella stampata su carta. Alla lagna questi provetti bibliofili accompagnano spesso un vezzo, quello di poter contare su un libraio di fiducia che li consiglia, li indirizza e li coccola. Sorvolerò sugli improperi che affermazioni del genere scatenano in me e dirò invece che il mio libraio di fiducia è rappresentato non da un venditore di carta stampata bensì da un editore inimitabile - Adelphi in questo caso - e dagli scrittori stessi, che di libri devono averne letti parecchi e i cui suggerimenti appaiono subito più equilibrati e calibrati rispetto a quelli d’un libraio qualunque. È il caso di Hermann Hesse (1877-1962) - non a caso il mio scrittore prediletto - e Giorgio Colli (1917-1979), insigne filologo torinese. Dicevamo dunque dei consigli. Quelli, spassionati, di Hesse li trovate in "Una biblioteca della letteratura universale"; quelli di Colli, metodici, in "Per una enciclopedia di autori classici". Nei saggi del primo si parla a briglia sciolta della formazione del gusto personale, e quali autori di quali epoche è necessario, se non obbligatorio, leggere. La collezione non è così sconfinata come ci si potrebbe immaginare in un primo momento. Hesse sostiene che l’Italia abbia prodotto le cose migliori tra il XIV e il XV secolo, la Francia nel XVIII, la Germania a cavallo col XIX; e poi i testi sacri delle religioni monoteiste e le Upaniṣad, alcuni greci e latini sempiterni, il "Don Chisciotte della Mancia" (1605), i grandiosi e psicologici russi e gli inglesi di tutti i tempi, senza tralasciare le ventate d’aria nuova provenienti da Oltreoceano. Nelle prefazioni di Colli si tratta invece di capire quali autori eminentemente classici è necessario tenere in gran conto – dove per classico si intenda l’assenza di contemporaneità. Ippocrate, Stendhal, Arthur Schopenhauer, Niccolò Machiavelli, Miguel de Cervantes, David Hume, Hippolyte Taine, Leibniz, Friedrich Nietzsche, Francesco Redi e tanti altri, classici della letteratura, della religione, del pensiero scientifico vengono presentati dal Colli nel suo tipico registro tra accademia e filosofia, bon ton e romanzeria.

Hermann Hesse (1979), Una biblioteca della letteratura universale, trad. di E. Castellani & I.A. Chiusano, Adelphi, Milano, pp. 130
Giorgio Colli (1983), Per una enciclopedia di autori classici, Adelphi, Milano, pp. 166


lunedì 15 giugno 2015

"Il libretto della vita dopo la morte"


Avere coscienza della propria fine: ho sempre pensato che fosse questa la più grande e spaventosa caratteristica dell’essere umano. Una peculiarità che - dico io - rende possibile l’esistenza di una fase ulteriore oltre la morte, una tappa di energia, che però non posso e non voglio teorizzare. Il momento del trapasso, unico e irripetibile, diverso per ognuno eppure sempre uguale, è il mio pensiero principe e si presenta con intermittenza nella fase che precede il sonno. Può durare cinque minuti come può durare due ore: il terrore che dal collo fascia rapidamente la testa. Penso a coloro che mi hanno lasciato qui, morto, o a coloro che presto nasceranno. Mi rivedo sul letto quando sarà la mia ora e immagino le parole da dire in quel momento. Mi contorco e capisco che non è questo a terrorizzarmi bensì la paura dell’attesa di svegliarmi sapendo che sarà tutto confortevole, come oggi, e sarà tutto diverso, come domani. Il sublime Gustav Theodor Fechner (1801-1887) pubblicò nel 1836 "Il libretto della vita dopo la morte" nel quale lo psicofisico tedesco forniva la propria visione dell’aldilà. Per lui le connessioni tra il mondo sensibile e quello fantasmico sono reali e, a riprova di ciò, riporta le frequenti relazioni tra i viventi e i defunti. Nonostante ciò l’adorabile e fantasioso libretto di Fechner sazia il nostro appetito ma non consola i nostri timori. La morte resta lì, cancello d’un giardino su un’isola lontana, oltre il quale non si vede niente, nemmeno foschia, che pure sarebbe tonificante. Vista da qui la morte è solo un’idea, che si farà concreta quando ci appresteremo, un giorno, a oltrepassare quell’inferriata. Cosa troveremo? Saremo ancora noi? E, soprattutto, saremo? Ecco, a volte piango, quando dimentico di essere un frutto e non un albero; come le foglie che, grazie a Dio, non creano teoremi laici, si ammettono in quanto foglie e non negano il bosco. La cosa buona è che alla fine mi addormento.

Gustav Theodor Fechner (2014), Il libretto della vita dopo la morte, trad. di E. Sola, Adelphi, Milano, pp. 106


giovedì 11 giugno 2015

"Una sola moltitudine" e "Lettere alla fidanzata"


«Omnia trina perfecta sunt» dicono i latinisti di fede cattolica. Qui invece la perfezione non si limita alla triade bensì a una moltitudine (in)definita, i cui individui, se sommati, fanno uno: "Una sola moltitudine" è difatti l’autore stesso, proprio lui, il Fernando Pessoa (1888-1935) pessimista, tediato, futurista, romantico, autolesionista, innamorato, nichilista, traduttore, misantropo, medianico, eteronimico, commerciante, nazionalista, viaggiatore, amante delle infinite cose come delle sottigliezze, che non sa stare al mondo ma che, se costretto, è luce del mattino nella folla anonima lisbonese. Pessoa è tante persone in una: da bimbo fu Chevalier de Pas, poi Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Bernardo Soares ed altri, vegeti o defunti; ognuno con una propria personalità, pensieri, carattere e indole autonomi. Questo primo volume, costituito da poesie, pagine di diario, missive e appunti sparsi del grande poeta portoghese, è curato dal massimo esperto italiano di estetica pessoiana Antonio Tabucchi (1943-2012), che qui coglie il Pessoa intimo e impubblicabile, non smussato delle asprezze sintattiche e ideologiche che giocoforza spariscono alla vigilia di una stampa editoriale. Troviamo la lettera inviata nel 1917 a Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) in cui, lodando il futurismo, se ne distacca per inseguire la Vertigine; gli scambi epistolari con l’amata bebè Ophelia Queiroz (1900-1991), completi e splendidi nelle "Lettere alla fidanzata"; troviamo il grande amore per il Portogallo dei Braganza, sconvolto nel 1910 dalla Repubblica, e per Lisbona in particolare; scopriamo tutto il suo sterco metafisico nelle locuzioni filosofiche, nell’amore per la parola pura, nell’otium trascorso a scrutare la gente comune, uomini grandi e piccoli, attori sulla scena della vita quotidiana del poeta. I molteplici Pessoa contenuti in "Una sola moltitudine" mi hanno ispirato una poesia - chi l’avrebbe mai detto? - che pressappoco fa così: «Discopro il sacro velo della conoscenza / Il miglioramento resta nell’aria a guardare / Questa ariosa altalena sulla preesistenza / Turpe girotondo di alveari e rumori / Se aggiungo qualcosa sottraggo all’assenza / Lo spirito lieve della montagna che aspetta / Trovo commensurate boria e competenza / Freddo vento glaciale che la mia lei non accetta / Dunque sono sparito nel candore del mondo / Prima svergognato, ora amato in più fretta / Lo ripeto da secoli, abbiamo toccato il fondo / Dell’oceano e del fango: nessuno che mi dia retta / Guardo adesso le storie intrecciate in ricamo / Di chi aveva già tutto e ha voluto partire / Sono stato già santo eppur non mi amo / Cerco adesso il vicario che mi lasci morire». È impossibile, dunque, non trovare qualche punto di contatto, fosse anche empatico, o di vera e propria comunanza con questo artista della parola: Fernando Pessoa uno, trino e per sempre vivente.

Fernando Pessoa (1979), Una sola moltitudine. Volume primo, a cura di A. Tabucchi, trad. di A. Tabucchi, M.J. de Lancastre & R. Desti, Adelphi, Milano, pp. 445
Fernando Pessoa (1988), Lettere alla fidanzata, a cura di A. Tabucchi, Adelphi, Milano, pp. 124




martedì 9 giugno 2015

"Visita a Rousseau e a Voltaire"


Ogni giornalista che si cimenti nel confronto diretto con un interlocutore illustre ha dinanzi a sé due alternative: la malizia e la ruffianeria. La prima porta l’intervistatore ad essere curioso, ai limiti della morbosità, più spesso duro e intransigente, facendo diventare l’intervista una sorta di interrogatorio; la ruffianeria è invece l’atteggiamento tipico di colui che si prostra dinanzi alla controparte, risultando oltremodo accomodante, servile, fatalmente gentile e benevolo, tanto da non poter mai aspirare alla condizione di cronista d’assalto. Tra Frost e Fazio vi sono ovviamente molteplici gradazioni di grigio. Ma poi ci imbattiamo in un giornalista ante litteram come James Boswell (1740-1795), una specie di falso nobile che, frequentando le migliori menti della sua epoca, spera di addivenire anch’egli ad una qualche illuminazione. Tra il 1763 e il 1765 si reca in Svizzera con l’intento di incontrare Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e Voltaire (1694-1778) ed effettivamente ci riesce. È tanta la ruffianeria di Boswell che nulla gli è precluso, anche se ben presto verrà accerchiato da battute irriverenti, quasi deriso per via della sua scarsa antichità; va detto che per esser nobili non basta il blasone, ma di certo non è colpa del povero scozzese se porta un nome barbaro come tanti altri. Fatto sta che i due grandi illuministi (il primo un po’ meno), per natura un po’ altezzosi, mostrano un certo ghigno snob - vanità più che vanitas. Gli incontri a due di James Boswell rappresentano comunque una interessante intrusione nelle vite e nei pensieri privati di questi due immensi intellettuali: mitezza e santità racchiuse in un sol volto. Alla fine ce lo immaginiamo Boswell a riflettere sulla propria condizione: a star con i migliori ha guadagnato little or nothing!

James Boswell (1973), Visita a Rousseau e a Voltaire, a cura di B. Fonzi, Adelphi, Milano, pp. 122